Cos’è il “cost per wear” e perché fare questo conto aiuta l’ambiente

Siamo sicuri che pagare poco un indumento che non indosseremo spesso sia conveniente? Per scoprirlo, basta calcolare il cost per wear.

  • La sigla cpw (cost per wear) indica il risultato che si ottiene dividendo il costo di un indumento per il numero di volte che lo si è indossato.
  • Questo tipo di conto fa capire come pagare poco un abito o un accessorio che non indosseremo quasi mai, non solo è dannoso per l’ambiente perché genera spreco, ma non è neanche vantaggioso economicamente.
  • Per ammortizzare il costo di un prodotto possiamo applicare la regola dei #100wears, ovvero la possibilità di indossarlo cento e più volte. In quest’ottica è utile farsi qualche domanda prima dell’acquisto per valutare a monte la durabilità del capo.

I jeans preferiti di chi scrive sono grigio chiaro, a vita alta, straight leg e tagliati all’altezza della caviglia, comprati a Los Angeles nel 2016 al costo di 198 dollari, approssimativamente 180 euro. Calcolando che sono passati cinque anni e che sono stati indossati veramente spesso, si può dire che il loro cost per wear sia decisamente basso.

calcolo cost per wear
Il cost per wear è calcolabile con una banale formula matematica © Ingimage

Cos’è e come si calcola il cost per wear di un capo?

Questa sigla, spesso riassunta nell’acronimo cpw, indica il costo di un indumento in rapporto alle volte che lo si è indossato e si ottiene dividendo il prezzo iniziale del capo per il numero di utilizzi. Ipotizziamo di indossare quei jeans cento volte l’anno. Moltiplicando questo dato per cinque (gli anni che sono passati dall’acquisto) si ottiene 500. Dividendo 180 (euro) per 500 si ottiene il cost per wear dei jeans, ovvero 36 centesimi di euro. A questi a breve si dovrà aggiungere un piccolo costo di riparazione; ipotizziamo che si tratti di 20 euro. 200 diviso 500 fa 40 centesimi.

cost per wear e fast fashion
Con la fast fashion ci siamo abituati a comprare di più, ma indossare di meno © Sean Gallup/Getty Images

La nostra percezione nei confronti di un capo di abbigliamento low cost cambia se scopriamo che il suo cpw è alto? Se pago un vestito, una T-shirt o un paio di pantaloni trenta euro, ma li indosso solo due volte, il loro cpw sarà di quindici euro, cifra esponenzialmente più grande di quaranta centesimi. Un hashtag popolare su Instagram, ultimamente, è #100wears: chi lo condivide invita a comprare cose che crediamo di poter indossare almeno cento volte, facendo sharing dei propri capi preferiti. Lo indosserò almeno cento volte? È questa la domanda da porsi prima di un nuovo acquisto.

Qualità e durabilità degli indumenti

Per arrivare a indossare qualcosa così spesso e a lungo è importante investire nella qualità del nostro nuovo acquisto: di fronte a due capi molto simili siamo spesso tentati di comprare quello che costa meno, ma non è detto che il cpw poi sia dalla nostra parte. Chiaramente, prima di poter fare qualunque paragone, l’elemento cruciale da tenere in considerazione è la qualità dei capi in comparazione. Non è necessariamente detto che qualcosa che costa tanto sia di ottima qualità, ma è spesso vero il contrario: materiali premium e processi produttivi etici non possono essere troppo a buon mercato.

Imparare a riconoscere materiali e fatture ed essere disposti a pagarle al giusto prezzo è di per sé una buona abitudine e, nel caso del cpw, in fin dei conti anche un’abilità che consente di risparmiare. Il punto di partenza per riconoscere la qualità di un indumento riguarda certamente i materiali di cui è fatto: le fibre naturali, ad esempio, mediamente costano di più, ma si rovinano anche meno in fretta.

cost per wear e produzione
Migranti lavorano il cotone a Shihezi, una città della provincia cinese di Xinjiang © Guang Niu/Getty Images

Invertire la tendenza

Un buon modo per essere ragionevolmente sicuri che i nostri capi dureranno a lungo è quello di investire in produzioni di tipo artigianale, o in brand che sappiamo essere attenti dal punto di vista della qualità e dell’eticità dei materiali, ma anche equi nel trattamento dei loro lavoratori. Chiaramente ci sono prodotti e prodotti, ma anche nel caso di una semplice t-shirt bianca di cotone ci sono delle variabili da considerare. Se è realizzata con il 100 per cento di fibra organica certificata sarà un investimento migliore della stessa t-shirt realizzata con un’alta percentuale di fibra sintetica. Oltre ad essere una scelta più etica, paga in termini di cpw, perché il numero di volte che saremo in grado di indossarla prima che si rovini è maggiore.

Si tratterebbe, in definitiva, solo di invertire la tendenza di questi ultimi vent’anni, da quando cioè l’arrivo della fast fashion, nei mercati e nelle nostre vite, ci ha abituati a un consumo di abbigliamento sempre più continuo e costante. Un report pubblicato dal Parlamento europeo nel febbraio del 2021 segnala come, dal 1996, la quantità di indumenti acquistati nell’Ue per persona sia aumentata del 40 per cento: noi cittadini europei consumiamo in media ogni anno quasi 26 chili di prodotti tessili a testa, ma ogni prodotto lo indossiamo per circa il 50 per cento in meno rispetto al passato. Compriamo di più e indossiamo di meno: se sommiamo a questi dati il fatto che, a livello mondiale, gli abiti vengono riciclati per meno dell’1 per cento, capiamo quale problema sia comprare qualcosa che poi non metteremo, o che metteremo poco.

I benefici per l’ambiente

Calcolare il cpw di un indumento ha sicuramente delle ricadute positive sulle nostre finanze, che siamo in questo modo più in grado di razionalizzare, ma ci consente anche di fare qualcosa di utile per l’ambiente. Stando ai dati diffusi dall’European environment agency, infatti, la produzione di tessuti genera dalle 15 alle 35 tonnellate circa di CO2 per tonnellata di tessuti prodotti. L’industria dell’abbigliamento, della calzatura e del tessile, con 654 chili di CO2 equivalente a persona prodotti nel 2017, si attesta come la quinta più inquinante in Unione europea a livello di emissioni di gas serra.

I processi di produzione tessile utilizzano inoltre parecchie sostanze chimiche, si stima più di tremila. Di queste, 750 sono state classificate come dannose per la salute umana, e 440 come pericolose per l’ambiente: circa il 20 per cento dell’inquinamento idrico globale è causato dalla tintura e dal finissaggio dei prodotti tessili. Va da sé che comprare qualcosa con l’obiettivo di indossarlo solo una o due volte, oltre a non essere così vantaggioso economicamente, è anche un comportamento discutibile dal punto di vista della tutela ambientale.

H&M fast fashion
Il colosso svedese di fast fashion H&M è il secondo retailer al mondo di abbigliamento per vendite © Sean Gallup/Getty Images

Alcuni consigli

Fare acquisti tenendo conto del cost per wear, oltre ad essere un’abitudine salutare per portafoglio e ambiente, è anche il primo passo per creare un guardaroba che funzioni davvero. Razionalizzare gli acquisti ha infatti un risvolto positivo anche in termini di estetica. Quante volte ci siamo ritrovati di fronte a un armadio strabordante con la sensazione di non avere nulla da indossare? Ad esempio: comprare pezzi che attirano l’attenzione, sono audaci, o hanno fantasie molto particolari, può sembrare un’ottima scelta lì per lì, ma poi ci rendiamo conto che non sono così riutilizzabili, può succedere di stufarsi in fretta, ma anche di non avere nulla di sensato con cui abbinarli. Quando siamo di fronte alla scelta se comprare o meno un indumento, o un accessorio, è infatti utile tenere a mente quello che già si possiede, e valutare se la new entry possa essere un buon match. Esercitarsi a creare combinazioni diverse a partire da pochi indumenti, al contrario, può essere divertente, oltre che funzionale durante i viaggi e utile dal punto di vista della riduzione degli sprechi.

Tutto quello che è frutto di un trend del momento avrà probabilmente vita breve, soprattutto quando non rispecchia pienamente il nostro stile: un indumento che ci riempie l’occhio o ci fa sentire bene quando lo indossiamo, invece, potrebbe diventare la nostra coperta di Linus ed essere indossato molte volte. Accanto alle considerazioni di carattere estetico, per cui chiaramente valgono gusti e inclinazioni personali, ci sono alcuni fattori che invece, nell’ottica indossare un capo il più possibile, vanno considerati a prescindere. Innanzitutto cuciture, bottoni e cerniere: volendo applicare il principio dei #100wears non devono dare segnali di poter essere fragili. Una cosa che si può fare, soprattutto nel caso di scarpe e cappotti, è quella di chiedere al negoziante se offre un servizio di riparazione o se è prevista una policy in caso di deterioramento precoce del capo (alcuni brand sportivi o legati al mondo dell’outdoor hanno una regolamentazione in questo senso che consente di riparare i capi danneggiati). Ancora: il materiale con cui è realizzato l’indumento è abbastanza resistente?

Infine, ci sono delle considerazioni da fare a partire dalle occasioni d’uso, da calcolare chiaramente in base alla vita che si conduce e alle inclinazioni personali. Se si hanno molte occasioni per vestirsi elegantemente ha senso investire in quel settore; se si fa molto sport, invece, può essere sensato avere diversi completi per il workout. Per tutti poi valgono delle considerazioni generali. Mi ripara dal freddo? È traspirante? Posso indossare questo capo sovrapposto ad altri? Posso indossarlo in più stagioni? Con quante combinazioni di outfit funziona? Devo comprare qualcos’altro per indossarlo? Tutte queste domande e limitazioni possono sembrare una seccatura, ma a lungo andare, una volta interiorizzate, ci aiuteranno a costruire un guardaroba non solo più consapevole e rispettoso dell’ambiente, ma anche più funzionale dal punto di vista del look.

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