Le principali industrie legate agli allevamenti emettono quanto una grande compagnia petrolifera

20 tra le principali aziende che producono carne e latticini inquinano quanto un paese europeo. Ma non esistono regole sulle emissioni di CO2.

La quota di emissioni di CO2 dell’industria della carne è sottostimata. Le principali 20 aziende produttrici di carne e latticini al mondo, infatti, sarebbero responsabili di più emissioni di quelle della Germania, del Regno Unito o della Francia. Lo sostiene il rapporto Meat Atlas, compilato da  Friends of the Earth Europe e la fondazione europea, Heinrich Böll Stiftung.

L’industria della carne emette più di quello che dichiara

Nel 2018, due organizzazioni non-profit, Grain e l’Institute for agriculture and trade policy, hanno calcolato le emissioni di 35 dei più grandi produttori di carne e latticini del mondo: cinque tra questi, Jbs, Tyson, Cargill, Dairy farmers of America e Fonterra, producono tante emissioni all’anno almeno quanto quelle di una grande compagnia petrolifera.

Il problema non è solo quanto emettono ma anche la mancanza di una regolamento a livello globale. Il rapporto fa notare che nessun governo richiede ai produttori di carne di documentare le loro emissioni di gas serra o di standardizzare i loro obiettivi di riduzione delle stesse. Il settore, invece, si affida alle “autodichiarazioni”. Il risultato, quindi, è che pochissime aziende che producono carne riportano le emissioni o i propri obiettivi per ridurle. Nel 2016, per esempio, solo tre hanno riportato una parte delle emissioni e solo una tra queste ha fornito cifre che corrispondevano ai calcoli dei ricercatori.

Un dipendente rifornisce la carne in un supermercato della Florida. © Joe Raedle/Getty Images

Le precedenti stime sulle emissioni degli allevamenti e dell’agricoltura erano “altamente aggregate” con metodi che non garantivano “la piena coerenza tra i sotto settori”, secondo un nuovo studio pubblicato su Nature Food. Lo studio ha calcolato che l’intero sistema di produzione alimentare, incluso l’uso di macchinari agricoli, l’irrorazione di fertilizzanti e il trasporto dei prodotti, produce 17,3 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno. Questo quantità equivale a più del doppio delle emissioni degli Stati Uniti e rappresenta il 35 per cento di tutte le emissioni globali, hanno detto i ricercatori.

Questi calcoli sono più alti delle stime precedenti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) per cui gli allevamenti sono responsabili del 14,5 per cento delle emissioni globali di gas serra di cui il 45 per cento delle emissioni derivano dalla produzione e lavorazione dei mangimi, il 39 per cento dalla fermentazione enterica (il gas metano prodotto dal tratto digestivo di ruminanti come bovini, pecore e capre), e il 10 per cento attribuibile allo stoccaggio e alla gestione del letame. Insieme, le emissioni dell’industria della carne contribuiscono dal 56 al 58 per cento delle emissioni di gas serra dell’intero settore alimentare.

Non stupisce affatto, poi, che lo studio confermi che l’allevamento e l’abbattimento di animali sono meno sostenibili dal punto di vista climatico rispetto alle coltivazioni di verdura e frutta, per esempio. Uno dei motivi è che gli animali da pascolo richiedono spazio e la terra viene spesso disboscata per coltivare il mangime. Lo studio calcola che la maggior parte di tutti i terreni coltivati del mondo sono usati per nutrire il bestiame, piuttosto che le persone. L’altro motivo è che il bestiame produce anche grandi quantità di metano, un potente gas serra.

Mucche da latte in Germania. © Sean Gallup/Getty Images

Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle emissioni, lo studio ha concluso che il Sudamerica è il continente con la più grande quota di emissioni alimentari di origine animale, seguita dal Sudest asiatico e dalla Cina. I maggiori produttori sono Cina, Brasile, Stati Uniti e Unione europea. Entro il 2029 questi paesi potrebbero ancora produrre il 60 per cento della produzione mondiale di carne, conferma anche il rapporto Meat Atlas. Solo in Brasile, per esempio, 175 milioni di ettari sono dedicati all’allevamento del bestiame.

Il ruolo delle banche e la centralizzazione

Il problema, poi, come nel caso del settore fossile, è che l’attività dei produttori di carne si porta dietro enormi flussi di capitale e investimenti. Istituti finanziari come banche pubbliche e private, fondi pensione e d’investimento sostengono la produzione industriale animale con centinaia di miliardi di euro. Secondo il rapporto, tra il 2015 e il 2020, le aziende di carne e latticini hanno ricevuto più di 478 miliardi di dollari di sostegno da 2.500 società di investimento, banche e fondi pensione, la maggior parte con sede in America settentrionale o in Europa. A questo ritmo, il rapporto stima che la produzione di carne potrebbe aumentare di altri 40 milioni di tonnellate entro il 2029, per raggiungere 366 milioni di tonnellate di carne all’anno.

Un pascolo di mucche in un’area deforestata in Brasile. © Mario Tama/Getty Images

Il rapporto sottolinea anche che le aziende più grandi comprano quelle più piccole, inglobandole e riducendo la concorrenza. Questo meccanismo rischia di spazzare via i modelli di produzione alimentare più sostenibili ed è alimentato dal fatto che i grandi produttori di carne sono in grado di offrire prezzi più bassi e rifornire quotidianamente i punti vendita come supermercati e grandi centri di distribuzione che, a loro volta, si rivolgono ai grandi produttori e distributori di carne, alimentando e radicando il circolo vizioso. Negli Stati Uniti, per esempio, meno del 5 per cento  degli allevamenti controllano l’80 per cento del mercato del bestiame, la maggior parte dei quali si trova in soli cinque stati.

Le soluzioni per ridurre le emissioni degli allevamenti 

Le soluzioni proposte per la crisi climatica rientrano in tre categorie, spiega Meat Atlas. Un approccio si basa su un’ulteriore intensificazione della produzione: più carne e meno mangime per animale. Ma la scienza e la maggior parte delle ong vedono la riduzione della produzione e del consumo di prodotti animali come la chiave risolutiva. “Meno e meglio sono le linee guida”, sostiene il rapporto. Un altro approccio complementare e raccomandato da alcuni scienziati per ridurre la produzione e il consumo di allevamenti e carne è attuabile attraverso misure che riducono la competizione tra il cibo per gli esseri umani e il mangime per gli animali. Inoltre, alcuni sistemi di gestione del bestiame come hanno il potenziale di tagliare le emissioni di oltre la metà. In tale sistemi, gli animali ruotano tra aree di pascolo separate. Questo previene il pascolo eccessivo, promuove la crescita del foraggio tra i cicli di pascolo e imita il movimento degli animali al pascolo nei sistemi naturali. Il rapporto evidenzia che questo sistema migliora la produttività dei pascoli, il sequestro della CO2 e la qualità del foraggio rispetto ai metodi convenzionali che mantengono un alto numero di bestiame su pascoli permanenti.

Un banco di carne a Wuhan, Cina. © Getty Images

Nessuna delle soluzioni considerate efficaci da parte degli esperti contempla di risolvere il problema esclusivamente dalla parte dei consumatori, meccanismo che, invece, la narrazione dominante soprattutto sui mezzi d’informazione, reitera e promuove. Un meccanismo che devia la responsabilità del problema dal produttore al consumatore, e che non esiste solo nel caso della carne ma è presente anche nel caso delle compagnie di combustibili fossili o delle multinazionali produttrici di bevande e packaging, e quindi di plastica.

Stanka Becheva, un’attivista per l’alimentazione e l’agricoltura che lavora con Friends of the Earth, ha detto al quotidiano britannico Guardian che “dobbiamo iniziare a ridurre il numero di animali ‘da cibo’ sul pianeta e incentivare diversi modelli di consumo”. È necessaria anche una maggiore regolamentazione dell’industria della carne “per assicurarsi che le aziende paghino per i danni fatti” e per  “ridurre al minimo ulteriori danni”, ha poi concluso Becheva.

È importante, quindi, che ci sia un’azione urgente sulla produzione, oltre che sui consumi, e che si cominci a far responsabilizzare le aziende per i propri prodotti, il proprio inquinamento e le proprie emissioni.

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