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Fino al 26 giugno il MAR di Ravenna esplora “La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto”, avvincente percorso espositivo sul rapporto tra arte del Novecento e modelli classici.
Nulla si crea né si distrugge, bensì tutto si trasforma: quale più pertinente applicazione del noto principio di Lavoisier se non l’ambito dell’arte figurativa con tutti i suoi inestinguibili “debiti” verso la tradizione precedente? Al Museo d’Arte della città di Ravenna (il cosiddetto MAR) si è scelto di adottare questa peculiare chiave di lettura per un’esposizione che, fino al 26 giugno, esplora citazioni, rimandi, rielaborazioni, dissacrazioni o rivisitazioni di ogni tipo che gli artisti del Novecento, il secolo avanguardista per eccellenza, dedicarono all’opera dei loro autorevoli predecessori.
La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto delinea un’ampia ed eloquente panoramica sull’influenza pervasiva dei modelli classici lungo l’intero percorso dell’arte novecentesca.
Ad apparire “sedotti” dall’antico non sono solo il Picasso della Testa di uomo barbuto, il Gino Severini della Maternità o i vari Carrà e De Chirico che fanno esplicita professione di appartenenza ad una certa tradizione pittorica: una “seduzione” analoga, densa di intrigo, ambivalenza e significati multipli, trapela innegabilmente anche dalla Gioconda baffuta di Duchamp ritratta nel celebre dipinto L’envers de la peinture (1955), dalla ponderosissima scultura bronzea di Dalì che ci tramanda una Venere di Milo attraversata da cassetti (Métamorphose topologique de la Vénus de Milo traversée par des Tiroirs del 1964) o dalla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (v. immagine di copertina), installazione del 1967 in cui la riproduzione di un’icona neoclassica come la “Venere con mela” (quella del giudizio di Paride) di Thorvaldsen viene rappresentata di schiena (allusione ulteriore alla Venere callipigia), nell’atto di attraversare un cumulo di anonimi stracci, incarnando così l’essenza del movimento artistico della cosiddetta “arte povera” e al tempo stesso contaminando se stessa nella serialità/riproducibilità degli oggetti della nostra epoca.
Come ha opportunamente osservato il curatore della mostra Claudio Spadoni, la presenza di tante copiose tracce di memoria storica –spesso conclamate ma talora anche implicite o criptiche– nell’opera degli artisti d’avanguardia, rappresenta una sorta di psicanalitico “ritorno del rimosso”, da parte di chi sceglie di contrapporsi alla tradizione o di differenziarsi da essa.
L’evocazione dei modelli del passato può in effetti avvenire secondo le più disparate modalità, cioè tendendo di volta in volta a produrre effetti di straniamento, e dunque di decontestualizzazione di stilemi tradizionali trasposti nella contemporaneità, oppure di attualizzazione/rivisitazione se non addirittura di vera e propria ridicolizzazione o dissacrazione. Ma molto più frequentemente accade che ogni citazione o evocazione dell’antico racchiuda contemporaneamente, a ben guardare, tante valenze contrastanti: è odio e amore, apprezzamento e critica, demolizione del feticcio ed emulazione del maestro, sberleffo ed encomio. Come ogni parricidio edipico che si rispetti.
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