The Economist. I polmoni del mondo

L’Economist in edicola questa settimana dedica uno speciale di 14 pagine sui “polmoni del mondo”. Le foreste. L’unica, vera speranza per arrestare il riscaldamento globale e prevenire i mutamenti del clima.

Il polmone del pianeta

La stagione secca, che in Amazzonia va da luglio a settembre,
quando i grileiros tagliano e bruciano la foresta pluviale, sta per
giungere al termine. Ma quest’anno il fumo è stato meno
denso. Anche le associazioni ambientaliste sono rimaste
impressionate dal cambiamento notato sorvolando i cieli del
“polmone brasiliano”.

 

Tra il 1996 e il 2005 venivano rasi al suolo quasi tre milioni
di ettari di foresta amazzonica l’anno. Quest’anno, 750 mila. Se si
fosse continuato al ritmo tenuto fino a cinque anni fa, un terzo
della foresta sarebbe andato in fumo entro il 2050. Ma, a partire
dal biennio 2008-09, i numeri sono decisamente calati fino a
raggiungere il punto più basso da oltre vent’anni: “solo” 7
mila km2 di foresta tagliata.

 

Cos’è cambiato… in Brasile?

Anzitutto una politica di sviluppo sostenibile orientata ad
espandere l’area di foresta designata a diventare parco nazionale o
riserva delle popolazioni indigene. Tra il 2002 e il 2009 ben 709
mila km2 sono stati destinati a tale uso.

 

Aumento dei controlli: l’INPE, l’Agenzia per il controllo
dello spazio nazionale, ha reso bisettimanali i rapporti sullo
stato della deforestazione, rendendo di fatto impossibile
nascondere gli abusi.

 

Le prospettive per il futuro. Per il 2020 il governo vorrebbe
ridurre la deforestazione fino all’80 per cento portando a 3.250
km2 l’area di foresta pluviale persa ogni anno. Alcuni politici
vorrebbero arrivare a uno stop totale finalizzato a invertire la
tendenza.

 

… nel panorama internazionale?

Prendendo spunto dall’esempio brasiliano, l’Economist continua
il suo viaggio spostando l’attenzione anche sugli sforzi
internazionali, in particolare sul programma delle Nazioni Unite
REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest
Degradation), il cui scopo è quello di ridurre le emissioni
di carbonio derivanti dalla deforestazione.

 

In un periodo in cui i negoziati che dovrebbero portare
all’adozione di un accordo che subentri al protocollo di Kyoto (in
scadenza nel 2012) sono fermi, REDD è l’unico vero successo
della UNFCCC 2009. Salvare le foreste, infatti, è il modo
più economico per ridurre le emissioni e questo ha permesso
che Paesi industrializzati e in via di sviluppo trovassero una
linea comune sul programma.

 

Il problema vero, però, è trovare nuovi spazi
per le coltivazioni. La popolazione mondiale, infatti,
crescerà del 50 per cento nei prossimi 40 anni. In teoria ci
sarebbero già sufficienti terre incolte utili a incrementare
la produzione agricola senza abbattere foreste secolari.

Ma questo risultato non sarà facile da raggiungere se non si
inizia a pensare in maniera realmente globale. Per fare un esempio
concreto, non è più accettabile che la Cina pianti
alberi sul proprio territorio mentre abbatte foreste in Congo per
produrre olio di palma.

La conclusione del
dossier
, dunque, è la seguente: “C’è
bisogno di un cambiamento filosofico, per riconoscere il valore
delle foreste. Questo accadrà, probabilmente, con l’aumento
delle crisi climatiche”. Sperando che non sia troppo tardi.

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