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“Il traditore”, di Marco Bellocchio, racconta la storia del pentito Tommaso Buscetta. Ai David di Donatello ha ottenuto sei riconoscimenti.
La mafia. Con la sua voracità, la sua violenza, i suoi conflitti interni. E uno dei suoi capi. Con la sua voracità, la sua violenza, i suoi conflitti interni. “Il traditore”, capolavoro di Marco Bellocchio, ha trionfato alla 65esima edizione dei David di Donatello. Conquistando ben sei statuette: film, regia, attore protagonista (il camaleontico Pierfrancesco Favino), e non protagonista (Luigi Lo Cascio, nel ruolo di un altro pentito, Salvatore Contorno), sceneggiatura originale e montaggio. E raccontando una storia di criminalità organizzata, capi, guerre e sangue attraverso la vicenda personale e storica di un personaggio unico.
Per chi ancora non avesse visto il film, infatti, “Il traditore” è Tommaso Buscetta, storico pentito della mafia siciliana, magistralmente interpretato dall’attore romano. L’uomo che, negli anni Ottanta consegnò al giudice Giovanni Falcone le “chiavi” di Cosa Nostra. Il codice per interpretarne i comportamenti, l’organizzazione interna, le gerarchie, le lotte intestine. Buscetta ha rappresentato per il pool antimafia – ideato dal giudice Rocco Chinnici e poi diretto da Antonino Caponnetto – una svolta. Di più: “la” svolta. L’elemento in grado di ricostruire, tassello dopo tassello, una vicenda durata decenni, lungo binari paralleli – e troppo spesso sovrapposti – alla storia dello stato italiano. Dal dopoguerra fino agli anni Novanta, e oltre.
La pellicola di Bellocchio rappresenta tutto questo: un tuffo in una realtà tragica e al contempo nell’intimità dei pensieri di un uomo dilaniato dalle contraddizioni. Dal dolore delle vendette subite dalla mafia. Dalla paura. Lirismo tragico e crudezza realista: il film riesce nella complessa sfida di raccontare l’epopea di un anti-eroe, affondando microfoni e obiettivi nella sua personalità e nei suoi (dis)valori, ma senza per questo generare alcuna empatia.
Ne è scaturito un affresco potente, condito da pugni allo stomaco pulp e atmosfere oniriche, di una figura centrale nella storia della lotta alla mafia. Tommaso Buscetta nacque nel 1928 a Palermo e morì in esilio, sotto protezione, a Miami, nel 2000. Fu soprannominato il “boss dei due mondi” per i complessi e fruttuosi traffici internazionali di droga che aveva pazientemente costruito nel corso degli anni, principalmente tra il Brasile e la sua Sicilia.
Nel 1945 fu “iniziato” alla mafia, attraverso la famiglia Bontate. Il suo primo capo fu Pippo Calò, boss con il quale si ritroverà a confronto diretto durante il maxiprocesso alla mafia, il 10 aprile 1986. Buscetta pentito accusatore; Calò mafioso lealista e negazionista. Un faccia a faccia che contribuì a far emergere la realtà spietata di Cosa Nostra, dai “picciotti”, soldati semplici, fino alla Cupola. Diretta, all’epoca, da Totò Riina, “la belva”. L’uomo che portò la vendetta nella vita di Buscetta, facendogli uccidere undici parenti, compresi due figli, un fratello e quattro nipoti.
Una mafia, quella dei corleonesi, che lui non riconosceva. Che “aveva perso la sua identità”, ripeteva il pentito. Anche di fronte a Falcone. Ma il giudice non sopportava quelle parole: perché “una mafia buona non esiste e non è mai esistita”.
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