Rocco Chinnici, il magistrato ucciso dalla mafia quando Palermo era Beirut

Rocco Chinnici fu il “padre” del pool antimafia. Fu ammazzato dalla mafia il 29 luglio 1983 di fronte a casa sua, nel cuore di Palermo.

“Palermo come Beirut”. I giornali titolarono così, la mattina del 30 luglio 1983. Il giorno prima, il 29, l’alba aveva annunciato una qualsiasi giornata d’estate. Il sole inondava le strade. La città si risvegliava. Un giudice, Rocco Chinnici, annodava la cravatta e si preparava ad uscire di casa, per andare al lavoro.

L’inferno in via Pipitone: quattro morti e 17 feriti

Via Federico Pipitone era una strada tranquilla. Dai palazzi costruiti negli anni Settanta, quelli del “sacco edilizio” di Palermo, si cominciavano a sollevare le serrande. Pochi minuti dopo le otto, Rocco Chinnici si affaccia all’ingresso dello stabile. Saluta il portiere, Stefano Li Sacchi, e comincia ad attraversare la strada. Al centro, ad aspettarlo, ci sono la sua scorta e l’Alfetta blindata, pronta a partire per raggiungere il palazzo di giustizia.

Ma c’è anche una Fiat 127, parcheggiata proprio davanti all’abitazione. Non troppo distante, un commando di killer della mafia, del quale faceva parte Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”. È un gruppo di sicari di Cosa Nostra noto: ha già ammazzato il segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre e il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ora, si appresta a compiere il suo terzo delitto eccellente.

rocco chinnici l'unità
La prima pagina del quotidiano l’Unità, il 30 luglio 1983, il giorno dopo l’omicidio del giudice Rocco Chinnici. Foto tratta da AntimafiaDuemila

Rocco Chinnici ideò il pool antimafia con Falcone e Borsellino

Pochi istanti e il commando aziona il pulsante del telecomando che ha in mano. In un attimo, l’esplosivo con il quale è stato riempito il bagagliaio della 127 trasforma via Pipitone in un teatro di guerra. La deflagrazione solleva l’asfalto, squassa le facciate dei palazzi e fa ripiombare sulla strada un fiume di detriti. In quell’inferno, giacciono i cadaveri di Chinnici, del maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, dell’appuntato Salvatore Bartolotta e del portiere dello stabile Li Sacchi. “E io resto vivo, dopo il boato prima vedo una luce bianca, poi rossa e nera. E come una sensazione di benessere che mi solleva in alto, sempre più in alto. Forse era la morte”. Giovanni Paparcuri, l’autista del giudice, è l’unico a salvarsi. I feriti sono invece diciassette.

Moriva così, a 58 anni, il capo dell’ufficio istruzione di Palermo: l’ideatore del pool antimafia, progetto che sarà successivamente portato avanti dal suo successore, Antonino Caponnetto, assieme ai magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. “Rigoroso, un po’ autoritario, però affettuoso e presente, anche quando il peso delle responsabilità e la paura per i suoi cari lo schiacciavano. Quella mattina, com’era sua abitudine, il giudice-papà aveva già smaltito tre ore di lavoro. Chino sui faldoni, prima ancora che spuntasse l’alba, a leggere gli ultimi verbali di polizia e carabinieri, ad annotare appunti e riflessioni, per poi discuterne con i suoi colleghi”, hanno raccontato Fabio De Pasquale e Eleonora Iannelli nel loro libro “Così non si può vivere”.

L’infinita sequenza di omicidi a Palermo

Chinnici arrivò all’ufficio istruzione di Palermo nel 1979. La Palermo nella quale arrivava era davvero una città in guerra. Il 25 settembre dello stesso anno era stato ammazzato Cesare Terranova, a colpi di pistola, assieme al maresciallo di pubblica sicurezza Lenin Mancuso: era il giudice del quale Chinnici prenderà il posto. Il 6 gennaio del 1980 Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica Sergio, viene crivellato di colpi in via della Libertà.

Il 4 maggio è la volta del capitano dei carabinieri di Monreale, Emanuele Basile, mentre con la figlia e la moglie aspetta i fuochi d’artificio per la festa del Santissimo Crocifisso nella cittadina arroccata nell’entroterra palermitano. Un sicario della mafia gli spara alle spalle e scappa. Il 6 agosto, muore il procuratore capo del tribunale di Palermo, Gaetano Costa, anche lui colpito alla schiena da una P38, mentre sfogliava libri su una bancarella.

Il 20 aprile del 1982 un altro delitto eccellente, quello di Pio La Torre, che per anni si è battuto contro la mafia e contro i legami tra cosche e politica. Il 3 settembre, poi, ammazzano Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei carabinieri che aveva sconfitto il terrorismo e che era stato paracadutato a Palermo neanche quattro mesi prima. E il 13 giugno 1983, la mafia fredda Mario D’Aleo, capitano dei carabinieri che aveva sostituito Basile.

Pose le basi del maxi-processo alla mafia

È in questo contesto che Rocco Chinnici, assieme ai suoi collaboratori, avviò il processo che porterà, con il pool antimafia, ad istruire il maxi-processo. Quel capolavoro giudiziario che rappresenterà il più duro colpo inferto alla criminalità organizzata mafiosa: 460 imputati, 200 avvocati difensori, quasi sei anni di lavoro. Conclusi con 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione.

Chinnici ottenne importantissimi risultati, in particolare, nella lotta al traffico di stupefacenti. L’FBI americana parlò in quegli anni della procura di Palermo come di un “centro nevralgico della battaglia contro la droga”. Nutriva grande fiducia nelle nuove generazioni e per questo volle divulgare in innumerevoli congressi e convegni la cultura della legalità. “Quando si dice che a Palermo – affermò il giudice – buona parte dell’economia si fonda sulla droga, non si esagera. È una realtà incontrovertibile. La mafia è una potenza imprenditoriale ed economica”.

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La targa commemorativa della morte di Rocco Chinnici, a Palermo © Fidilio89/Wikimedia Commons

I killer di Rocco Chinnici furono condannati in primo e secondo grado, ma poi la sentenza fu riformata in Cassazione. A pronunciare il verdetto, in appello, fu il giudice Antonino Saetta. La mafia lo ammazzò il 25 settembre 1988, assieme al figlio Stefano, mentre tornavano da un battesimo, sulla statale 640. La stessa nella quale è stato assassinato il giudice Rosario Livatino.

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