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Un pulmino guidato da dottoresse in fuga dallo Stato Islamico diventa una clinica mobile per tutte le donne, anche loro in fuga, che vivono in campi profughi e nelle zone più remote del paese.
A prima vista sembra un pulmino della scuola. In realtà, appena si sale a bordo, i primi oggetti che richiamano l’attenzione sono uno stetoscopio, una bilancia, uno sfigmomanometro (per misurare la pressione) e un piccolo baule colmo di medicine. I sedili sono sostituiti da due lettini pieghevoli attaccati alle maniglie dell’autobus e tre donne sorridenti, con il camice blu, accolgono altre donne che si accalcano davanti all’ambulatorio per farsi visitare. Le unità mobili sono delle cliniche su quattro ruote che raggiungono le rifugiate siriane e le sfollate irachene nelle aree più remote e isolate, difficilmente raggiungibili o da cui queste donne faticano a uscire.
Il campo profughi di Baharka è una di queste. Situato a una quindicina di chilometri da Erbil, nel Kurdistan iracheno, il campo accoglie più di 500 famiglie irachene, sfollati interni in fuga per lo più dallo Stato Islamico (o Daesh). Ci sono molte minoranze all’interno del campo, come shabaak e turcomanni, ma anche famiglie sunnite che hanno scelto di non vivere sotto le regole del califfato. È da giugno 2014 che lo Stato Islamico ha conquistato più di un terzo dell’Iraq instaurando la sua capitale a Mosul. Poche settimane fa è iniziata l’offensiva da parte dell’esercito iracheno, delle forze curde peshmerga e delle diverse milizie, sotto la guida della coalizione internazionale, per la riconquista della roccaforte dello Stato Islamico.
Da più di due anni quasi tre milioni di iracheni, secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sono sfollati interni: donne, uomini e bambini costretti a rifugiarsi e a vivere all’interno di campi profughi nel nord dell’Iraq in condizioni piuttosto vulnerabili, soprattutto per le donne. La guerra, infatti, ha peggiorato le loro condizioni di vita e di salute. Per questo l’ong italiana Un ponte per, ha deciso di sostenere il progetto Jihan, in arabo vita, per la salute riproduttiva e ginecologica delle donne attraverso cliniche mobili e non, gratuite e aperte a tutte le comunità.
“Dall’inizio della guerra, a causa dell’alto numero di sfollati e profughi, il sistema sanitario curdo è al collasso e molte sono le donne che non possono permettersi di accedere a cure private”, spiega Marta Malaspina, capo progetto di Un ponte per. In questi centri arrivano donne da tutte le comunità, da quella irachena a quella curda e siriana. Anche le dottoresse che ci lavorano sono in fuga dalla guerra o dallo Stato Islamico.
Aya Alani, 26 anni, è arrivata ad Erbil nel 2014 con la sua famiglia e i suoi fratelli. “Ho vissuto tutta la mia vita a Baghdad, dove ho studiato. Ma siccome la situazione era veramente critica e pericolosa, abbiamo scelto di muoverci in un posto più sicuro, a Tikrit, dove viveva mio zio”, racconta senza smettere di sorridere. “Poi quando l’Isis è entrato nella città siamo scappati di nuovo e siamo venuti direttamente qui, a Erbil”. Aya è una donna energica e solare, di religione sunnita. Trasmette passione quando la si osserva visitare le pazienti.
“Con questo pulmino andiamo dentro i campi e le donne vengono da noi per farsi visitare o per chiedere un consiglio”, spiega la dottoressa, mentre compila un formulario riportando le problematiche delle donne. “Ci aspettano ogni giorno, ormai siamo diventate un punto di riferimento per loro”. La clinica mobile gira all’interno del campo ma in altri casi le infermiere e le dottoresse entrano nelle tende per verificare che non ci siano altre donne in necessità. “Il nostro compito è offrire le cure a tutte”, afferma con convinzione. I problemi principali sono l’alto numero di gravidanze e le infezioni, dovute alla mancanza d’igiene personale e di acqua potabile. “Essendo povere riscontriamo anche problemi alimentari e nutritivi che accentuano questo tipo di patologie”, spiega Aya.
Accanto alla dottoressa, un’altra giovane infermiera misura la pressione alle donne a bordo del pulmino. Si chiama Raghda, ha 24 anni ed è cristiana. È molto più timida e riservata della dottoressa Aya. Ha gli occhi azzurri e uno sguardo triste e sfuggente. Proviene da Mosul, città in cui è nata e cresciuta e che è stata costretta ad abbandonare nel 2014 dopo l’arrivo dello Stato Islamico.
“La mia vita era migliore rispetto a quella di adesso. Avevamo la nostra casa, il nostro lavoro. Lavoravo come infermiera all’ospedale Amadani di Mosul. Ero serena. Poi il mondo mi è crollato addosso, anzi ci è crollato addosso”, ci tiene a precisare. Tutte le donne vivono nella stessa situazione, siano esse cristiane o musulmane. Il pericolo, la fuga e il dover ricominciare, da zero, in un’altra città.
“Amiamo quello che facciamo, considerando l’aiuto che diamo alle altre donne”, aggiunge la dottoressa Aya. “Anche se non era quello che ci immaginavamo, sicuramente siamo più fortunate. Se dobbiamo paragonarci a queste donne che vivono qui nel campo, sicuramente stiamo meglio. Certo non è facile neanche per noi, ma siamo più fortunate”, conclude.
Mentre Aya e Raghda finiscono di compilare le schede delle donne visitate durante la giornata, arriva un’altra paziente. Si chiama Suad, ha trentatré anni ed è fuggita da Mosul nel giugno 2014. Anche lei è musulmana sunnita. “Avevo paura che Daesh prendesse mio marito”, si sfoga, “È un operatore medico sanitario e a loro servono queste professioni”. Si copre il viso perché non vuole essere fotografata. “Ho ancora famigliari dentro Mosul, non posso, mi dispiace”. Suad pensa di essere incinta. Aya le dà un test di gravidanza. Dopo poco il risultato è quello sperato. Suad è incinta. I sorrisi sono sul volto di tutte, pazienti e dottoresse e la gioia è condivisa. E alla domanda: “Come ve lo immaginate il vostro futuro?”, tutte rispondono: “A Mosul, insieme, come prima, Inshallah”.
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