In vista della Cop29 di Baku, le organizzazioni chiedono che si discuta di come stoppare il rifornimento energetico di Israele per porre fine alla guerra.
Come si è arrivati alla strage di Hamas e cosa può succedere ora tra Israele e Palestina
Una guerra lunga tra Israele e Palestina o, peggio, un’estensione del conflitto. L’attacco di Hamas è un salto nel buio. Ma come si è arrivati fin qui?
- L’attacco di Hamas contro Israele è inedito per ampiezza, portata, coordinamento e danni causati, soprattutto in termini di perdite di vite umane. Era dalla guerra del 1973 che non si verificava un’offensiva simile.
- È impossibile, allo stato attuale, prevedere cosa accadrà ora. Le razioni delle diplomazie internazionali si dividono tra un incondizionato appoggio a Israele dal mondo occidentale, totalmente compatto. E chi invece – Egitto, Russia, Paesi del Golfo – predica calma, prudenza e invita ad evitare escalation.
- Le ragioni che hanno provocato l’attacco sono legate probabilmente al tentativo di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed alcune nazioni, Arabia Saudita in testa. Ma non potrebbe bastare a scatenare un simile inferno, se non ci fossero anche decenni di discriminazioni, di bombardamenti quotidiani, di ghettizzazioni nella Striscia di Gaza, di vessazioni in Cisgiordania, di colonie imposte nonostante siano state dichiarate illegali dalle Nazioni Unite, di embarghi, povertà, fame, mancanza di scuole, di elettricità, di cibo, di ospedali e di medicine.
“Per i servizi segreti si è trattato della peggiore sconfitta dai tempi della guerra dello Yom Kippur del 1973”. Giornalisti, osservatori ed esperti della questione israelo-palestinese hanno sottolineato come l’attacco del 7 ottobre da parte dell’organizzazione estremista palestinese Hamas allo stato ebraico abbia colto di sorpresa non solo il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, ma anche lo stesso governo di Tel Aviv. E con loro accademici, personale diplomatico, parlamentari. La realtà, però, è che l’esplosività della situazione nella Striscia di Gaza (ma anche a Nablus, Betlemme, Gerico o Hebron) era invisibile solo a chi ha voluto chiudere, per troppo tempo, gli occhi.
Perché le conseguenze dell’attacco di Hamas sono imprevedibili
L’operazione avviata all’alba dai combattenti del partito fondamentalista palestinese porta con sé innumerevoli interrogativi sul futuro. Nessuno può predire cosa, allo stato attuale, potrebbe accadere: le diplomazie internazionali potrebbero riuscire ad intercedere affinché le parti accettino un cessate il fuoco in breve tempo. Oppure potrebbe essere l’inizio di una guerra di lunga durata che potrebbe rimanere circoscritta a Palestina e Israele, ma non è escluso possa estendersi ad altre nazioni del Medio Oriente. La situazione è magmatica e impossibile da prevedere. Alcuni dati sono, però, evidenti. Legati alle reazioni della comunità internazionale, alla storia recente e meno recente del popolo palestinese, e alle modalità attraverso le quali è stato sferrato l’attacco.
Le vittime sono più di 700 (e 2.150 feriti) tra gli israeliani, oltre 400 (tra i quali 78 bambini, finora) tra gli abitanti della Striscia di Gaza. Tutti in buona parte civili, quindi innocenti. Centinaia erano giovani che stavano assistendo ad un concerto al momento dell’attacco. “È il nostro 11 settembre”, è stato dichiarato da fonti israeliane. Il parallelo può essere considerato o meno pertinente. Ma, oggi come allora, condannare e al contempo contestualizzare non può essere un errore. Non si può dire che “questa è solo l’ora di stare al fianco di Israele”, perché è sempre l’ora di stare il più possibile dalla parte della verità. Anche e soprattutto quando in gioco ci sono vite umane.
Si parla anche di decine di ostaggi in mano ai palestinesi. Per tutto ciò Hamas deve essere condannata. Dopo la condanna, però, bisogna fare un esercizio di coerenza morale, di onestà intellettuale e di verità storica. Perché questi tre elementi sono essenziali per tutti coloro il cui obiettivo è quello a cui tutti dovremmo tendere: la pace. Incondizionata.
L’ipotesi dei due Stati mai realmente perseguita: oggi a Gaza c’è l’apartheid
Nello stato di Israele, come riconosciuto da alcuni eminenti studiosi universitari statunitensi (non iraniani, né libanesi dunque) tra il fiume Giordano e il Mediterraneo non ci sono “due stati”, come ipotizzavano in un raro momento di entusiasmo internazionale gli Accordi di Oslo siglati dall’allora presidente dell’Autorità palestinese (all’epoca Olp) Yasser Arafat e da Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano, sotto l’egida del presidente statunitense dell’epoca, Bill Clinton. No: oggi c’è un solo stato, con due popolazioni sottoposte a leggi e regole differenziate, a tribunali differenziati. Il che definisce in tutto e per tutto una situazione, appunto, di apartheid. E finché non si affronta questa realtà, è impossibile immaginare un cambiamento, una riconciliazione, un compromesso, una pace.
La comunità internazionale deve ammettere con la stessa fermezza con la quale, giustamente, condanna le uccisioni di innocenti da parte di Hamas, che una nazione che crea, ammette e perpetua ciò che accade nella Striscia di Gaza non può essere considerata compiutamente democratica. Per lo meno, “è una democrazia agonizzante”, come afferma il giornalista franco-israeliano Charles Enderlin, uno dei massimi esperti del conflitto, sul campo dai tempi della guerra dello Yom Kippur del 1973.
Quali informazioni possiamo trarre dalle modalità dell’attacco
Partiamo dai dati. Il primo: un attacco simile deve essere stato preparato a lungo. Ed è difficile immaginare che Hamas non abbia goduto di un appoggio esterno, non soltanto da gruppi legati alla jihad islamica. La posizione diplomatica dell’Iran non lascia dubbi su una “benedizione” dell’Iran: il generale dei Guardiani della rivoluzione Yahya Rahim-Safavi, citato dall’agenzia Isna, ha dichiarato di sostenere “con fierezza l’operazione palestinese”. E Hezbollah, in Libano, ha reagito all’attacco lanciando a sua volta razzi contro Israele (il cui esercito ha risposto con bombardamenti aerei).
Dal punto di vista militare, gli uomini di Hamas, dopo la preghiera dell’alba, hanno superato la linea di confine, fortificata, con Israele in più punti, con attacchi da terra, aria e mare. Hanno designato obiettivi tattici precisi, utilizzato diversi mezzi d’infiltrazione nel territorio nemico, mostrato capacità di coordinamento senza precedenti. Nulla si sa inoltre sulle potenziali scorte di armi presenti attualmente nella Striscia di Gaza (né in che modo possano esserci arrivate).
La replica di Israele: colpiti 500 obiettivi, inclusi ospedali e ambulanze
Si sa invece che Israele ha replicato agli attacchi di Hamas con pesantissimi raid aerei e con colpi d’artiglieria, già sabato e poi nella notte tra domenica 8 e lunedì 9 ottobre: sono stati colpiti “più di 500 obiettivi” a Gaza. A Khan Younes, città palestinese nella porzione meridionale della Striscia di Gaza, è stata bombardata una moschea. A Gaza, caccia israeliani hanno colpito e distrutto la torre “Palestina”: edificio residenziale di quattordici piani nel quartiere di al-Rimal, in pieno centro.
Uomini, donne e bambini sono fuggiti dalle zone al confine con Israele per tentare di rifugiarsi più nell’interno. Almeno 70mila persone hanno cercato riparo nelle scuole o in altre strutture, secondo quanto riferito dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Medici senza frontiere parla di attacchi anche a ambulanze e ospedali.
La data, la politica interna e il sostegno dei palestinesi ad Hamas
Il secondo dato a disposizione è relativo alla data. È fin troppo evidente il riferimento alla guerra del 1973, che fu scatenata proprio il 6 ottobre. In questo senso l’offensiva palestinese potrebbe iscriversi in un quadro più preoccupante: quello di una riedizione del massacrante conflitto di 50 anni fa, che costò la vita ad almeno 16mila persone.
Il terzo elemento riguarda la politica interna della Palestina: l’operazione di Hamas evidenzia la marginalizzazione dell’Autorità nazionale palestinese (And), il cui leader Mahmoud Abbas ha sempre meno presa anche in Cisgiordania. Una sconfitta anche per Israele: non aver voluto per anni aprire un vero dialogo con la più moderata Anp, costringendo al contempo la popolazione palestinese a vivere in condizioni spesso disumane, non poteva che aumentare i consensi delle ali estremiste.
Dopo i primi attacchi palestinesi c’è chi riferisce che le strade di Ramallah si sono riempite di bandiere di Hamas. E molti hanno risposto all’appello lanciato da Mohammed Deif (capo delle brigate dei martiri di al-Aqsa) a scendere nelle strade e sostenere l’operazione militare. Se in futuro i potenziali interlocutori di Tel Aviv dovessero essere i miliziani di Hamas, ci vorrebbe un miracolo per immaginare un tavolo negoziale. Sul quale già, comunque, peserebbe non solo l’ultimo attacco di Hamas ma anche le centinaia di palestinesi ammazzati nel corso degli anni, assieme alle condizioni di apartheid nelle quali sono costretti a vivere gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza.
In Palestina fame e povertà. Israele non cede sulle colonie
La Striscia di Gaza è d’altra parte una sorta di prigione: da lì non si può uscire, né si può entrare. Chi vi abita è di fatto imprigionato come in un immenso carcere, lasciato a vivere in condizioni vergognose. “I dati forniti dall’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) indicano che il 36 per cento della popolazione palestinese vive al di sotto della soglia di povertà e che l’insicurezza alimentare è aumentata dal 9 al 23 per cento in Cisgiordania e dal 50 al 53 per cento a Gaza”, riferiva l’agenzia di stampa italiana Ansa soltanto un anno fa.
A ciò si aggiunge la vicenda degli insediamenti israeliani. Quando nel novembre del 2022 Benjamin Netanyahu presentava alla Knesset, il parlamento di Tel Aviv, le linee programmatiche del proprio governo, puntò proprio sulla scelta di espandere le colonie nella Cisgiordania occupata. Nonostante queste siano già state da tempo dichiarate illegali dalle Nazioni Unite. Anche qui, traducendo in termini semplici: l’attuale primo ministro israeliano ha proclamato al suo parlamento che la soluzione, secondo lui, sta nel perpetuare ed aggravare una situazione di illegalità.
Come hanno reagito le diplomazie internazionali all’attacco palestinese
Il quarto elemento da prendere in considerazione è il posizionamento delle diplomazie internazionali. Fatta eccezione per l’entusiasmo di Iran e Hezbollah, la stragrande maggioranza delle reazioni all’attacco è stata di condanna per Hamas e di sostegno incondizionato a Israele. Un coro pressoché unanime si è levato nell’intero mondo occidentale. E i pochi che hanno sottolineato che, però, se l’obiettivo è la pace, serve un cambiamento profondo anche da parte di Israele sono stati trattati sostanzialmente come irresponsabili.
Da parte loro, Russia ed Egitto hanno risposto chiedendo “calma” alle parti in causa e sottolineando “preoccupazione” per i rischi di escalation del conflitto e di estensione dello stesso. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha esortato la comunità internazionale a mettere in campo tutti gli sforzi diplomatici possibili per evitare un allargamento è un deteriorarsi ulteriore della situazione tra Israele e Palestina: “La violenza – ha dichiarato il diplomatico portoghese – non può fornire alcuna soluzione, soltanto dei negoziati possono portare alla pace tra i due Stati”.
Il difficile equilibrismo diplomatico dell’Arabia Saudita, che negozia con Israele
I paesi del Golfo, tra i quali alcuni – come il Marocco, gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrain, che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele dal 2020 – hanno lanciato appelli alla calma. Esattamente come fatto dall’Arabia Saudita, che è in pieno negoziato con Israele per stabilire delle relazioni pacifiche. Elemento che certamente può aver avuto un peso nella decisione di Hamas di attaccare.
Il ministero degli Esteri saudita, in un comunicato, ha chiesto “la fine immediata delle violenze tra israeliani e palestinesi”. E ha aggiunto: “Seguiamo questi eventi senza precedenti tra fazioni di Gaza e forze d’occupazione”. Parole misurate col centellino, da chi è costretto oggi ad un difficile equilibrismo tra la necessità di non far saltare il banco e quella di continuare a sottolineare come quella israeliana sia, appunto, un’occupazione.
Per arrivare alla pace non servono a nulla posizionamenti sbilanciati
La partita aperta all’alba di sabato si gioca anche su questo. Per far cessare violenze e uccisioni servirà la buona volontà, o per lo meno la convenienza, dei due belligeranti. Ma sarà necessario anche il sostegno di numerose diplomazie, siano esse filo-arabe o filo-israeliane.
La pace, nella storia, è arrivata sempre o per accettazione dalle parti in causa o per la sconfitta di una delle due, con tutto ciò che la seconda opzione comporta in termini di morte e sofferenza. Se si cerca una soluzione pacifica, questa non arriverà attraverso posizionamenti sbilanciati da una parte o dall’altra. È per questo che limitarsi alla giusta condanna dell’attacco di Hamas, delle violenze efferate e delle uccisioni di civili israeliani innocenti senza tenere ben chiaro a mente anche cosa ha portato a tale barbarie, dimenticando mezzo secolo di embarghi, assassinii e vessazioni di ogni tipo, è il modo migliore per alimentare altra violenza, altre guerre, altre escalation.
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