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Le sale del museo comunale di via Nizza accolgono fino al 17 aprile una trentina di opere (di cui oltre la metà inedite) di Anish Kapoor, celebre artista di origine indiana.
Conciliare il magma primitivo con l’essenzialità formale, ovvero creare oggetti che esprimano il massimo della concretezza materica incarnando, al tempo stesso, l’apice dell’astrazione concettuale: tale appare, in estrema sintesi, la sfida artistica intrapresa dall’ormai monumentale – in senso sia letterale sia figurato – Anish Kapoor, che nell’esposizione recentemente inaugurata al Macro di Roma sembra stavolta decisamente indulgere sul versante della carnalità ovvero, appunto, della materia.
Escrescenze aggettanti, squarci di membra lacerate, quasi da mattatoio, con l’indiscusso predominio del rosso sangue, alternati ad agglomerati di cera e silicone dipinto (ma anche iuta, pelliccia ed altri tessuti), intervallati da qualche scultura di apollineo rigore: le sale del museo comunale di arte contemporanea di via Nizza accolgono fino al 17 aprile una trentina di opere (di cui oltre la metà inedite) in cui l’ormai celebre artista di origine indiana sembra aver raggiunto il suo momento di massima prossimità alla lezione inequivocabile di maestri come Alberto Burri o Francis Bacon.
La mostra curata da Mario Codognato (il cui video-teaser è disponibile a questo link) ci consegna insomma un Kapoor che persegue con particolare enfasi ed intensità emozionale il suo obiettivo di sempre, ossia la ricerca della primordialità, l’indagine radicale che mira a rintracciare l’origine e l’essenza primigenia delle cose, esaltandone la consistenza materiale ed archetipica.
E se l’autore può ormai qualificarsi come un ospite ricorrente ed apprezzato del Belpaese, come confermano le recenti presenze italiane al Casamadre di Napoli o nella sede veneziana della Fondazione Prada, alcune delle opere in mostra al Macro sono reduci da prestigiosi e discussi allestimenti internazionali.
È il caso di “Sectional Body preparing for Monadic Singularity” (vedi dettaglio nell’immagine di copertina), monumentale scultura-architettura in acciaio e Pvc (cloruro di polivinile) già esposta un anno prima nel parco della reggia di Versailles, ma anche di “Internal Objects in Three Parts” (2013-2015), trittico in silicone, cera e pigmento recentemente ospitato nel blasonatissimo Rijksmuseum di Amsterdam dove ha “dialogato” con i capolavori di Rembrandt.
E accanto ai suddetti archetipi geometrici del singolo e del triplice, non poteva mancare il simbolo, altrettanto primitivo ed universale, del triangolo, rappresentato dall’opera che ha più frequentemente catalizzato il rito del selfie da parte dei visitatori della mostra, ovvero il gioco ottico di cavità e convessità, rivestite di vetroresina e oro, che caratterizza l’ormai famoso “Angolo che scompare in se stesso” (“Corner disappearing into itself”, 2015).
Dagli esempi citati si desume un’evidente caratteristica che accomuna l’arte di Kapoor a quella di vari altri maestri contemporanei, ovvero la decisiva importanza attribuita ai titoli delle opere, indispensabili ad una loro effettiva comprensione da parte di pubblico e critica, in virtù di quella spiccata vocazione intellettualistica tipica dell’arte dei nostri giorni, che spesso e volentieri richiede complesse mediazioni concettuali per imporsi alla piena consapevolezza dello spettatore.
Sir Anish Kapoor, classe 1954, nato a Bombay da madre ebrea irachena e padre indiano, dopo l’esordio nello studio di Patrice Alexandre a Parigi, si è rapidamente imposto sulla scena dell’arte contemporanea internazionale anche grazie ai tanti autorevoli riconoscimenti inanellati nel corso della carriera, dal premio come miglior artista giovane (in rappresentanza della Gran Bretagna) alla Biennale di Venezia del 1990 sino al Turner Prize dell’anno successivo, al Praemium Imperiale per la scultura nel 2011 e numerosi altri.
Britannico per formazione accademica, percorso biografico e sensibilità culturale (sebbene si sia pubblicamente rammaricato per la scelta di Brexit), Kapoor può fregiarsi dell’appellativo di “sir” essendo stato insignito del titolo di baronetto da Sua Maestà Elisabetta II nel 2013.
Proprio in concomitanza con la sua mostra romana, troviamo Kapoor nell’occhio del ciclone di una polemica piuttosto singolare e bizzarra.
Il “casus belli” coincide con l’uso di un colore speciale, ovvero una particolarissima tonalità di nero che assorbe il 99,96 per cento della luce solare impedendo così allo sguardo umano di captare perfino quelle ombre o variazioni di profondità che consentirebbero di intuire i volumi degli oggetti: insomma, il nero più nero che esista.
Il prezioso pigmento, denominato “vantablack”, è stato brevettato e sviluppato dalla Nasa al fine di ottenerne l’applicazione nel settore della difesa e in quello aerospaziale, ad esempio per occultare i satelliti o alcuni jet da combattimento.
Di recente Anish Kapoor, sulla scia di quella che secondo i più malevoli non sarebbe altro che una brillante trovata di marketing della società produttrice Surrey Nano Systems, si è aggiudicato il monopolio dell’impiego artistico del vantablack, già proficuamente testato in una serie di suoi esperimenti.
Il privilegio accordato all’artista indiano, sebbene non privo di precedenti illustri, come il famoso blu brevettato da Yves Klein, ha prevedibilmente suscitato le ire di altri colleghi quali Christian Furr, che progettava di impiegare il vantablack in una serie di propri dipinti o il londinese Stuart Semple.
Da quest’ultimo è stata mossa la controffensiva più originale, ovvero la creazione del “rosa più rosa del mondo”, il cui utilizzo è stato esplicitamente e perentoriamente interdetto al solo Anish Kapoor.
Superfluo aggiungere che il contenzioso si è protratto su Instagram, con scambi fotografici non propriamente amichevoli tra i due interessati: dito medio versus “v” di vittoria rispettivamente tinteggiati in rosa e nero.
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