Come suonano le città in Urban groovescapes, il nuovo lavoro di Max Casacci

Max Casacci ci racconta il suo ultimo album Urban groovescapes, interamente prodotto con i suoni della città e senza l’uso di strumenti musicali.

“La natura ha dei ‘suoni’, la città dei ‘rumori’. Ma è davvero così?”. Questa è la domanda a cui Max Casacci, musicista, sperimentatore, chitarrista, produttore e co-fondatore dei Subsonica, ha risposto, brano dopo brano, nel suo nuovo lavoro Urban Groovescapes, uscito lo scorso mese per 35mm, sezione cinematografico-sperimentale di 42 Records.

Se nel precedente lavoro Earthphonia, Max Casacci aveva scelto di far ri-suonare la natura e i suoi ecosistemi, questa volta l’autore sperimenta e manipola i suoni della città: mezzi di trasporto, ambienti stradali, ma anche oggetti di consumo, sport, la voce di una diva come Monica Bellucci e i rumori di un cocktail bar diventano la colonna sonora squisitamente dance delle nostre vite metropolitane.

A dispetto di quanto si possa pensare, però, in Urban groovescapes c’è anche tantissima umanità: al di là della tecnologia, che sempre di più pervade le nostre metropoli – o smart city – e dei paesaggi urbani che troppo spesso vengono identificati come spazi alienanti, grigi e degradati, le città sono corpi, storie, vite, relazioni, ritualità, miti, conflitti, desideri e tensioni. Soprattutto, le città sono ciò che noi immaginiamo e come noi le trasformiamo, per questo i veri (e inconsapevoli) protagonisti di Urban groovescape siamo proprio noi, che ogni giorno abbiamo il potere di ripensare alle nostre città in modo differente e in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale, trasformando sopravvivenza in benessere.

Urban Groovescapes di Max Casacci.
In Urban Groovescapes a suonare sono i mezzi di trasporto, gli ambienti stradali, gli oggetti di consumo, sport e tutto ciò che si può trovare in una città © Paolo Ranzani

Il lavoro di trasformazione dei suoni iniziato da Max Casacci ormai più di dieci anni, pur raggiungendo in quest’ultimo lavoro una certa maturità sonora, non è certo giunto al suo termine: il disco stesso è stato pensato come in continua evoluzione e pronto ad arricchirsi. Proprio per questo, la versione digitale dell’album (Urban groovescapes è disponibile anche in un’edizione limitata e numerata in vinile bianco, accompagnata da un libretto che illustra e accompagna l’ascolto del disco) è stata concepita sin dall’inizio come un contenitore aperto: un urban mixtape dinamico al quale si andranno ad aggiungere via via nuove tracce.

Ghost rail, brano sulle note ricavate dal rovesciamento di un camion dei rifiuti e di un escavatore per lavori stradali, è il primo brano con cui Max Casacci ha iniziato il percorso di arricchimento dell’album, a cui si aggiunge ora una seconda traccia, The sound of Balatelle, che mette in musica i suoni di una periferia estrema di Catania, coinvolgendo i giovani della cooperativa sociale Prospettiva di San Giovanni Galermo, nel rione Balatelle.

L’artista ha anche lanciato la call to action #RUMORIDELLACITTA’ che invita chiunque voglia esplorare attivamente i suoni della propria città, a cercarli, scoprirli, e registrarli con un video da caricare come reel o story sui propri social, taggando il profilo Instagram @maxcasacci e inserendo l’hashtag #rumoridellacittà, o in alternativa inviando la registrazione (video o anche solo audio) alla mail [email protected]. Casacci salverà tutto il materiale ricevuto tramite social o mail, estrapolandone l’audio per espandere i confini dell’album Urban groovescapes, realizzando nuove tracce con le quali poter ballare anche dal vivo.

Urban groovescapes: Max Casacci ci parla del suo nuovo album 

Per sapere di più sul suo nuovo disco, abbiamo intervistato direttamente l’autore, Max Casacci.

Pensi che Urban Groovescapes sia un’evoluzione o qualcosa in totale contrapposizione rispetto a Earthphonia?
Esiste un legame fra il precedente Earthphonia dei suoni della natura e Urban Groovescapes dei suoni dello spazio urbano e ho voluto sottolinearlo aggiungendo la dicitura Earthphonia II: si tratta in entrambi i casi di musica realizzata esclusivamente con suoni, rumori, ambienti sonori del Pianeta: anche le attività umane e noi sapiens facciamo parte del Pianeta. C’è qualcosa di più che ho voluto sottolineare usando come brano di anticipazione Messaggio di Goia, realizzato esclusivamente con i suoni del trasporto pubblico perché è importante oggi, a mio avviso, sottolineare l’esigenza di un approccio ecosostenibile soprattutto nelle città che sono i luoghi in prima linea nella battaglia per il clima.

Credo che una linea di congiunzione tra i due possa anche essere la natura allargata di entrambi rispetto all’idea di disco come contenitore chiuso. Ci spieghi meglio?
Realizzare musica con rumore di ambienti sonori significa anche partire da dei “come” e dei “perché” differenti rispetto a quelli della musica realizzata con strumenti più tradizionali. La musica dovrebbe sempre poter bastare a sé stessa e io credo che in qualche modo anche questa musica lo faccia; tuttavia può essere interessante approfondire questi “come” e questi “perché”. Nel caso di Earthphonia sono state le pagine di un libro che conteneva il cd a dare questa possibilità. Ho voluto che Urban Grovescapes fosse anche un oggetto fisico – un vinile – e volevo avere la possibilità di avere a disposizione un minimo di spazio per delle didascalie. In entrambi i casi, non volevo che questa esperienza musicale si limitasse solo alle piattaforme di streaming. Tuttavia, ho provato a riflettere sulle possibilità che oggi mette a disposizione la tecnologia applicata alla musica. Se è vero che un concept raramente esiste prima della musica, in questo caso a metà del guado, mentre continuavo a fare sperimentazione sui suoni delle città, ha preso vita un concept e quando arrivi alla fine del lavoro rimangono ancora delle storie da raccontare, incominci a chiarirti le idee, avresti voglia di andare avanti. Così, mi sono lasciato questa possibilità. Il vinile racconta un percorso scandito in dieci tappe, un percorso che ha una sua conclusione, ma attraverso le piattaforme in streaming prenderà vita un urban mixtape dove andrò ulteriormente ad approfondire il rapporto fa suono, musica e spazio urbano.

Lo stupore era il sottotesto di Earthphonia. La mia impressione è che ti piaccia molto lasciarti stupire e ribaltare le carte in tavola, perché anche in questo lavoro ti rapporti ai rumori della città in modo diverso, senza pregiudizi. È un po’ come se avessi voluto colorare il grigiore della città con i suoi suoni. Ci spieghi meglio il tuo approccio?
Credo che negli ultimi decenni, la musica in relazione allo spazio urbano si sia appiattita su una narrazione autocompiaciuta legata alla desolazione, al degrado, all’alienazione dei rumori e a una certa monocromia. Ho pensato di provare a ribaltare le carte in tavola inseguendo i rumori che ho catturato e che mi hanno comunicato qualcosa di diverso. Molti di questi rumori hanno avuto anche la forza di riconnettermi immediatamente a momenti del mio passato e questo mi ha permesso di riflettere su quanto i rumori della città in realtà ci cullino da quando nasciamo e quanto questi rumori facciano parte della nostra identità. Ho immaginato una reazione diversa con la sinfonia del quotidiano, applicandola alle esigenze che abbiamo oggi più che mai di ripensare e riformulare le nostre città, perché le città incominciano a cambiare solo dopo che iniziamo a immaginarle diverse. Per esempio, prendiamo una città come Amsterdam con gli obiettivi legati all’economia circolare e a un calendario temporale di cose che devono succedere e ci troviamo di fronte a un esempio virtuoso di come le città possano cambiare, ma solo perché esiste alla base uno sforzo di immaginazione collettiva molto forte. Non vorrei attribuire eccessiva importanza a quelli che sono degli esperimenti musicali, a quello che è anche un piacere di fare musica partendo da presupposti diversi. Però ritengo che oggi, nel 2022, un ruolo della musica e dell’arte possa essere quello di stimolare l’immaginazione collettiva: sono molto convinto che le città siano una prima linea nei confronti di tutto ciò che dobbiamo modificare riguardo ai rapporti con il nostro Pianeta.

Per Earthphonia, ci avevi svelato che a stupirti erano state soprattutto le api. In questo caso?
Come per i suoni della natura, anche con i suoni di città mi sono trovato abbastanza stupefatto dalle direzioni impensabili che i rumori catturati sapevano indicarmi. Se devo pensare una traccia, così al volo, penso alla terza traccia dell’album che si chiama Mixology, un brano realizzato esclusivamente con i suoni di un cocktail bar, in realtà un locale che conosco molto bene e che frequento come punto di ritrovo fra amici. Una sera mi sono concentrato a cercare di scomporlo in una sorta di orchestra immaginaria e ho incominciato a identificare i vari suoni. Per esempio, lo sportello del frigorifero mi sembrava una cassa; il suono ricorrente del ghiaccio che viene vuotato dallo shaker e che sbatte contro i lavandini mi sembrava un rullante; i boccioni di vetro che tintinnavano erano degli elementi potenziali di melodie; lo stappo delle bollicine ho immaginato potesse diventare un tamburo da favela; gli stappi dei tappi di sughero, anche loro esprimevano delle note; la macchina del ghiaccio faceva un piccolo fraseggio melodico e via dicendo. Mi sono quindi presentato un pomeriggio in questo bar di Torino, che si chiama Barz8, e ho registrato tutti questi suoni e devo dire che non avrei mai immaginato potessero essere così malleabili. Infatti, ne è venuto fuori un brano molto articolato – ci ho messo tre mesi e mezzo a finirlo… Però, ogni volta che lo ascolto mi sorprendo pensando ai suoni di partenza. Qualche giorno fa, per strada, mi sono fermato a registrare il suono di un tubo Innocenti che sbatteva contro l’impalcatura: è un suono col quale vedo assolutamente realizzare un brano perché, a parte il fatto che identifica una nota molto precisa e un suono altrettanto familiare, è ricco di tutta una serie di tonalità espressive che ogni tanto mi metto a suonare e mi danno la stessa soddisfazione del suono di uno strumento musicale.

Com’è suonare nei club questo genere di musica? Quanto è difficile portare questo tipo di suoni a una dimensione più strutturata, ma soprattutto a una dimensione ballabile, da dancefloor?
È un dato di fatto che i suoni della città, a differenza di quelli della natura che suggeriscono un approccio più immersivo, meditativo e rilassato, contengano degli elementi ritmici: molto spesso sono suoni provenienti da dispositivi elettronici o congegni meccanici che hanno una loro serialità. Nella narrazione questo ritmo è sempre stato interpretato in chiave disumanizzante. La sfida, la provocazione di Urban Groovescapes è, invece, di estrarre e svelare questo ritmo che è molto familiare: sono suoni con i quali conviviamo. Presentarli in modalità dance, coinvolgente, gioiosa, colorata è anche un modo per cercare di avvicinarci alla città che viviamo quotidianamente per poterla considerare uno spazio perfettibile, a cui destinare le nostre migliori risorse, anche di immaginazione. Trovarmi in un dancefloor a proporre questi suoni di città come elemento danzante è stato molto stimolante e devo dire che funziona molto bene. Chiaramente, non c’è una vera e propria narrazione –  nel dancefloor si balla non si parla, non si ascoltano le parole – però, a volte attraverso alcune immagini che utilizzo, riesco a suggerire la natura di questi suoni, da dove provengono e ogni tanto gioco a creare delle sospensioni nelle quali con una tastiera suono un singolo suono, trasformandolo in tessuto armonico. Tutto questo innesca un gioco molto divertito e coinvolto a rendersi conto di star ballando con i suoni della sinfonia del quotidiano. È un’esperienza che mi sta dando davvero molta soddisfazione!

La traccia Messaggio di Gioia viene descritta come “uno scambio di messaggi ecosostenibili di gioia tra mezzi pubblici di trasporto”. Che cosa significa esattamente?
Nella presentazione del brano Messaggio di Gioia ho sintetizzato, e forse banalizzato, dicendo che i mezzi di trasporto di Torino e Milano si scambiavano un messaggio ecosostenibile di gioia. Il pensiero che stava alla base è una sorta di gioco di provocazione per cui ho utilizzato per il brano lo stesso appeal che l’automobile utilizza per rendere invece la mobilità privata un oggetto del desiderio, utilizzando sonorità dance e sexy, se vogliamo. Questo gioco invita anche a una riflessione: ci sono dei piccoli cambiamenti, che non sono piccoli perché sono dei grandi cambiamenti individuali, che sono necessari alla fruizione della nostra vita nelle città. Questi cambiamenti, che non facciamo, hanno a che fare con delle routine, dei piccoli egoismi. Continuare a utilizzare prevalentemente il trasporto privato rispetto al trasporto pubblico va proprio a identificare uno di questi passaggi importanti, se vogliamo anche di rinuncia a qualche cosa che è una sorta di abitudine, in funzione di qualcosa che ha a che fare con il benessere collettivo: per esempio, io vengo dalla città più inquinata d’Italia (ndr. Torino), quindi questo argomento mi sta particolarmente a cuore.

Alcuni dati ci dicono che entro il 2045, nel mondo, due persone su tre vivranno in città. Cosa deve essere fatto perché le città possano davvero migliorare la qualità della vita dei propri cittadini? Da chi deve partire il cambiamento?
Anche se talvolta non le conosciamo nemmeno, quasi in tempo reale ci sono metropoli nel mondo che si stanno trasformando in megalopoli e risulta sempre più evidente come siano le città i luoghi che immettono nell’ambiente le maggiori quantità di gas serra così come è sempre più evidente, anche se può sembrare controintuitivo, come siano le città i luoghi da cui deve partire un cambiamento radicale di approccio per avere un riflesso sul resto dell’ambiente. Credo che la trasformazione debba partire da molti punti. Io, da artista, non posso che sottolineare l’importanza della trasformazione culturale, il fatto che esistano città che possono diventare degli esempi virtuosi, dei modelli: ecco, bisogna cercare, soprattutto nella parte di mondo più attenta ed evoluta – e io metto l’Europa in questa parte di mondo – è importante che vengano sviluppati dei modelli che possano servire per la trasformazione globale del nostro rapporto con lo spazio urbano e quindi con il resto del Pianeta, che è l’unica casa che abbiamo.

Rispetto all’ultima volta che ci siamo sentiti, due anni fa, come è cambiato secondo te l’attivismo ambientale e la risposta ai campanelli d’allarme lanciati dai movimenti ambientalisti da parte di chi risiede nelle stanze del potere?
Oggi il dibattito si sta fossilizzando tra la definizione di attivismo giusto e attivismo sbagliato. Credo che siano argomenti che ci distraggono pericolosamente da un elemento che faremo bene a non perdere di vista: a dispetto delle dell’iniziative internazionali, rispetto ai manifesti di buone intenzioni, noi emettiamo ogni anno sempre più anidride carbonica nell’ambiente…. c’è bisogno di sempre maggiore attivismo! Forse bisogna trovare delle direzioni nuove. Nella mia attività di artista quello che cerco di fare è di utilizzare degli strumenti che aggirino le asimmetrie del conflitto perché il conflitto restringe il campo e noi abbiamo invece bisogno di allargare il campo di azione e di coinvolgimento. Ecco che utilizzare canali emotivi come quelli che riesce ad aprire la musica, utilizzare degli strumenti che stimolino l’empatia nei confronti dell’ambiente, come nel caso di Earthphonia, o nei confronti dei luoghi che devono essere principalmente trasformati per modificare il rapporto fra noi e l’ambiente come in quest’ultimo disco, può essere un tassello che si aggiunge alla battaglia per il clima e alla battaglia per l’ambiente. Che si aggiunge non nel tentativo di sostituirsi a un altro tipo di azione o narrazione, ma nel tentativo di aggiungere degli elementi che non siano da un lato eccessivamente drammatici, che in qualche modo scoraggino la possibilità di intraprendere delle azioni anche individuali, e che non siano esclusivamente moralisti.

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