Movimenti in movimento

Intervista a Paul Kingsnorth, che segue da vicino l’evoluzione in tutto il mondo dei movimenti no-global tenendo le fila di un processo di cambiamento in atto in piccole comunità.

In un viaggio di otto mesi in cinque continenti, Paul Kingsnorth ha
toccato con mano le numerose e variegate realtà del
movimento dei movimenti. Paul è giornalista, ha collaborato
con diverse testate tra cui “Indipendence”, “Guardian” e “The
ecologist” di cui è stato è stato vicedirettore e con
cui ancora collabora. Nel suo libro, “Un no e molti sì.
Viaggio nel cuore delle resistenze alla globalizzazione” (ed. Ponte
alle Grazie), che sta avendo vasta eco in tutto il mondo, racconta
quella che definisce “la storia più importante della nostra
epoca”.
LifeGate ha intervistato il trentenne autore e attivista inglese a
Milano.

“Un no e molti sì” è il manifesto del movimento
no-global?

Non mi piace parlare di ‘no-global’ o anti-globalizzazione,
preferisco definirlo ‘movimento dei movimenti’. Globalizzazione
è un termine troppo vago. Il movimento contesta il sistema
economico neoliberista che si sta imponendo in tutto il mondo.
È un movimento globale che non è spinto da
un’ideologia. Nasce dai contatti tra gli innumerevoli movimenti
sorti spontaneamente nell’ultimo decennio per reagire allo
strapotere della finanza internazionale e delle grandi
multinazionali. Centinaia di milioni di persone in tutto il mondo
hanno capito che c’è un unico sistema alla base di una serie
di problemi apparentemente scollegati. Per questo il ‘no’ è
uno solo. Non c’è solo la protesta, però. Sono
tantissime le proposte concrete e le azioni intraprese a livello
locale. In alternativa a un unico sistema distruttivo, il movimento
propone numerose e diversificate strade per creare un mondo
più equo. Non ci può essere una sola idea che valga
per le tante realtà e culture del mondo. Per questo i
‘sì’ sono molti e per questo il movimento non ha né
un leader né un manifesto.

Nei tuoi viaggi hai incontrato le tribù indigene di Papua
Ovest, in Nuova Guinea, i ‘senza terra’ del Brasile, le
comunità zapatiste del Chiapas. Culture diverse, accomunate
però da un modo di vivere in cui non sono i soldi a fare la
ricchezza, ma l’accesso diretto alla terra. Pensi che attraverso il
movimento anche le nostre società possano imparare qualcosa
da queste culture diverse?

Le popolazioni indigene, le comunità rurali sono il cuore
del movimento. Si può dire che è cominciato con la
rivoluzione Zapatista. Ai Social Forum mondiali le popolazioni
indigene e tribali sono una presenza fondamentale e hanno molto da
insegnarci a proposito del significato di progresso e
qualità della vita. Non basta dire che c’è
disuguaglianza nel mondo e che il problema sarà risolto
quando anche i popoli del ‘Sud’ avranno tutto quello che abbiamo
noi. Queste popolazioni infatti non vogliono uno sviluppo basato
sul modello occidentale, vogliono un progresso basato sui valori
che loro ritengono importanti.

Molte componenti del movimento, in Europa e negli USA, mettono
in primo piano l’aiuto ad altre popolazioni ‘più povere’,
invece che intervenire sul nostro stile di vita. Non dovremmo
innanzitutto cambiare noi, rivedere il nostro concetto di
progresso?

Certo, dovremmo riflettere di più sulla nostra idea di
progresso e sui valori che vogliamo portare avanti nelle nostre
società. Questo aspetto viene trascurato anche da molte
persone politicamente attive. È un retaggio del passato.
Abbiamo una tradizione di movimenti di lavoratori nati all’interno
di società urbane e industrializzate. Lo stesso marxismo
è un’ideologia di stampo ‘occidentale’. Si muove all’interno
di una società fondata sulla produzione industriale, pur
prevedendo una diversa distribuzione della proprietà.
Così, in molti movimenti del passato le popolazioni rurali
non venivano considerate. Il movimento globale di oggi, invece,
è molto più ampio e include anche realtà
rurali e delle popolazioni indigene, che non hanno attraversato
questa fase storica di materializzazione e urbanizzazione. Anche se
alcuni attivisti ancora non mettono in dubbio a sufficienza l’idea
occidentale di progresso, questo movimento è senz’altro
migliore di qualsiasi altro, perché è aperto ai punti
di vista più diversi. Certo, è molto più
facile parlare del divario tra ricchi e poveri che proporre alla
gente un’idea completamente diversa di qualità della vita.
Non è una cosa che si possa comunicare con uno slogan o una
conferenza.
Richiede un cambiamento del modo di pensare.

E’ un processo individuale o pensi che ci si possa arrivare
attraverso un movimento di massa? Il movimento può
funzionare anche come una specie di ‘università
globale’?

Qualcuno ha definito questo “movimento di movimenti” un grande
laboratorio di idee. È un gigantesco esperimento, di cui
potremo conoscere i risultati soltanto nel lungo termine.
L’educazione è un processo dinamico, l’importante è
non assumere un approccio dogmatico, ma continuare a farsi domande.
Il cambiamento passa per gli individui, ma anche per le
comunità. Il capitalismo globale distrugge i rapporti di
vicinato e le comunità. Ripensare i propri valori significa
anche ripensare i rapporti nelle comunità, le
modalità di cooperazione per risolvere i problemi
individuali e comuni. Ci possono volere generazioni per produrre un
cambiamento di valori. Prendiamo, per esempio, l’ecologia. Prima
degli anni ’60 non se ne parlava affatto. Oggi la gente è
più sensibile a questi temi, ma non abbastanza. Ci vuole
molto tempo per cambiare. Il movimento esprime molte prospettive
nuove per il futuro. Un modo diverso di vedere il potere, per
esempio. Il potere non deve necessariamente essere centralizzato o
accentrato nelle mani di pochi, ma può essere suddiviso in
tante piccole fette. Lo dimostrano le piccole comunità che,
di fronte all’indifferenza dei governi centrali, hanno deciso di
prendersi il potere necessario per soddisfare le loro esigenze:
Zapatisti in Messico, ‘senza terra’ in Brasile, township in Sud
Africa, ma anche comunità locali in California o in
Colorado, dove iniziative partite dal basso hanno prodotto leggi
locali per contenere lo strapotere delle grandi aziende e
proteggere gli interessi della popolazione.

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