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Le donne dell’America Latina sono una risorsa fondamentale per lo sviluppo delle comunità indigene. Progetti come Tuq’tuquilal, in Guatemala, sono un esempio naturale di ambientalismo intersezionale.
Nel cuore del Guatemala, quattro donne hanno fondato un progetto di sviluppo comunitario che riguarda l’ambientalismo intersezionale. Tuq’tuquilal, questo il nome dell’associazione, si occupa di integrare nei programmi di riforestazione e protezione della biodiversità donne e popolazioni indigene, creando così una rete che tuteli sia i diritti dell’ambiente che quelli delle persone in un unico progetto di intersezionalità.
È proprio per dare voce a realtà di questo tipo che è nato Diritto a REsistere, un progetto che, attraverso le storie di donne e di comunità indigene – quotidianamente impegnate nella REsistenza allo sfruttamento ambientale in centro America – vuole mostrare la correlazione tra i diritti umani e quelli ambientali.
Ambientalismo intersezionale è un termine che oggi viene spesso usato per descrivere un attivismo composito e in continua trasformazione, che nelle sue istanze tenga conto di fattori diversi e si faccia portavoce di diverse prospettive. In un mondo sempre più complesso, dove le sfide da affrontare si intersecano in matasse difficili da sbrogliare, è impensabile riuscire a risolvere un problema senza dover affrontare sistematicamente anche tutti gli altri.
Per avere un esempio basta pensare agli obiettivi dell’agenda 2030: non si può sconfiggere la povertà senza eliminare la fame nel mondo, o garantire la pace senza investire nell’istruzione, così come è utopico credere di poter combattere la crisi climatica senza intervenire sulle disuguaglianze e le discriminazioni sociali. Includere tutti i fattori in gioco è quindi necessario quando si affrontano questi temi, per non reiterare ancora una volta modelli di false soluzioni che vanno bene a una ristretta fascia di popolazione esacerbando però la vulnerabilità delle altre.
L’intersezionalità diventa il simbolo di molteplici discriminazioni combinate insieme, di storie di persone che subiscono maltrattamenti ed emarginazione per le ragioni più diverse – tra cui genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità, religione e classe. Da più di un secolo questo concetto viene chiamato in causa da chi vuole dimostrare il punto d’incontro tra discriminazioni diverse, a partire da quelle razziali e di genere. Il concetto è infatti visibile già con le attiviste femministe che combattevano per l’abolizionismo americano nella seconda metà dell’Ottocento, e ritorna con i collettivi degli anni Sessanta che lottano per le discriminazioni di genere, il razzismo e l’omofobia.
Tuttavia, il termine “intersezionalità” compare ufficialmente per la prima volta solo nel 1989: delle donne afroamericane avevano citato in giudizio un’azienda che assumeva sia donne bianche che uomini afroamericani, ma non donne nere, che si trovavano quindi ad essere doppiamente discriminate per il loro genere e per il colore della loro pelle. Ecco quindi che la combinazione delle due discriminazioni eludeva sia la condanna per razzismo che quella per discriminazione di genere, e l’azienda non subì alcuna conseguenza. Dopo questo episodio la giurista e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw sviluppò la teoria sociologica e giuridica dell’intersezionalità, per evitare che in futuro fatti simili fossero lasciati nell’indifferenza generale.
Purtroppo, tutt’oggi maschilismo, omofobia, razzismo e abilismo spesso si mescolano in migliaia di storie di diritti umani non rispettati e di voci inascoltate. A queste discriminazioni storiche va ad aggiungersi il peso della questione climatica – il caro prezzo delle nostre emissioni climalteranti che i Paesi più poveri e gli strati più vulnerabili della popolazione stanno già pagando a caro prezzo. Il mondo occidentale ha una responsabilità storica sullo sfruttamento del Pianeta, le cui conseguenze gravano pesantemente sui Paesi meno responsabili della crisi climatica e al contempo non hanno gli strumenti per l’adattamento e la resilienza.
Un esempio è l’America Latina, responsabile del meno del dieci per cento delle emissioni globali, che però subisce annualmente delle grandissime perdite – a livello economico, sociale e ambientale – a causa della crisi climatica. Le donne, che sono le principali lavoratrici del settore primario – circa il settanta per cento – subiscono i danni peggiori, che vanno spesso ad aggiungersi a situazioni di precarietà, vulnerabilità e violenza già presenti.
Le donne e le popolazioni indigene sono tra le principali vittime della crisi climatica, ma spesso sono anche coloro che combattono più fieramente per difendere i propri diritti e quelli ambientali, in una lotta intersezionale che li rende protagonisti – seppur spesso invisibili – di lotte storiche e grandi cambiamenti. Lo studio “A spatial overview of the global importance of Indigenous lands for conservation”, pubblicato su Nature Sustainability, dimostra ad esempio che gli indigeni, seppur essendo solo il cinque per cento della popolazione mondiale, proteggono circa un quarto della superficie terrestre, occupandosi da soli di circa il quaranta per cento delle aree naturali a livello globale.
“Ambientalismo” e “ambientalismo intersezionale” diventano quindi due termini molto diversi. Mentre “ambientalismo” porta ancora le ombre storiche di un privilegio maschio e bianco, “ambientalismo intersezionale” parla di inclusione, relazione e giustizia sociale.
Intersezionalità diventa così una parola carica di opportunità. Affrontando le crisi attuali con una prospettiva intersezionale si possono trovare soluzioni poliedriche a sfide apparentemente impossibili e mettere le basi per un mondo più equo, più sostenibile e più giusto. Giustizia climatica significa questo: affrontare i problemi climatici e ambientali attraverso la lente dei diritti umani per costruire nuovi scenari di realtà, capaci di radicarsi in un presente interconnesso e stratificato, dove ogni sguardo apre futuro e, come è sempre stato sul pianeta Terra, tutto si tiene.
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