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Ci vorrebbe un piano per ripristinare la serenità, la socialità, la fiducia in sé stessi e nel futuro dopo la pandemia. Il commento del portavoce di Amnesty International Italia sul caso Ilicic.
Io adoro Josip Ilicic. Un’adorazione iniziata all’esordio nel campionato italiano, nel Palermo, aumentata quando giocò nella Fiorentina, diventata smisurata nelle stagioni all’Atalanta. Esplosa definitivamente la sera della quaterna al Valencia, il 10 marzo 2020.
Quando gioca, i suoi colpi di genio e le sue straordinarie intuizioni fanno perdonare la pigrizia e l’indolenza. La sua, calcisticamente, è una complessità armoniosa.
La complessità nella mente, invece, rischia di produrre poca armonia. Soprattutto se sei nato alla fine degli anni Ottanta in Bosnia-Erzegovina, in una città – Prijedor – che di lì a poco avrebbe ospitato uno dei più infami campi di concentramento dei Balcani; se hai perso tuo padre, croato, ucciso da vicino di casa serbo quando la guerra “ufficiale” doveva ancora iniziare; se la tua famiglia si è dovuta rifugiare in Slovenia, dove la guerra era durata poco ma dove comunque sei cresciuto avendocela intorno.
In quella serata di Valencia, la pandemia stava già devastando Bergamo e la sua provincia. Sulle cause, sul “chiudi e apri” del pronto soccorso di Alzano Lombardo e sulla mancata proclamazione della zona rossa, le inchieste sono in corso.
L’Atalanta si prese la sua terra e la sua gente sulle spalle per regalare, almeno per un’ora e mezzo, un sorriso. Insieme ai volontari Alpini, i tifosi della “Dea” tirarono su dal nulla un ospedale da campo.
Nella primavera del 2020 la mente di Ilicic ha fatto corto circuito. Sono scattati collegamenti col passato. L’isolamento, le sirene delle ambulanze, le città vuote. Il ritorno della paura di morire. L’insonnia. Il corto circuito è tornato nell’inverno 2022.
“La mente è una giungla”, ha dichiarato l’allenatore di Ilicic, Gian Piero Gasperini.
A un uomo ricco e acclamato si rimprovera di essere e di mostrarsi debole e vulnerabile. La ricchezza e la fama dovrebbero fargli da scudo, si dice. Pensiamo a chi non ha i suoi mezzi, le sue risorse, si prosegue.
Sì, pensiamoci. E ringraziamo Ilicic per averci aiutati a ricordare che nel nostro paese devastato dalla pandemia si stanno verificando disturbi da stress post-traumatico tipici dei periodi di guerra.
Va detto chiaramente: come altrove, anche in Italia c’è una crisi collettiva di salute mentale evidenziata da depressione, attacchi di panico, autolesionismo, pensieri suicidi, comportamenti irrazionali. Non si salva nessuno: dai più fragili (le persone anziane, le persone adolescenti) ai più “solidi”.
Nel 2020 c’è stato un aumento delle richieste di aiuto psicologico del 39 per cento. Un quinto dei pazienti ha interrotto il trattamento per problemi economici: i 50-100 euro a seduta non erano più sostenibili. Sempre per motivi economici, un quarto delle persone che avrebbero avuto bisogno di terapie, non ha neanche iniziato.
Il servizio pubblico “non è in grado di sostenere questo enorme incremento di domanda”, ha affermato Davide Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. Del resto, solo il 5 per cento degli psicologi e delle psicologhe lavora in una struttura di salute pubblica.
Il 22 gennaio, ventuno società scientifiche hanno scritto al ministero della Salute, al parlamento e alle regioni chiedendo, tra l’altro, “l’attivazione di strutture pubbliche di prossimità per rispondere al bisogno di ascolto e sostegno psicologico” e “la concretizzazione della figura dello psicologo di base nell’ambito della rete dei medici e dei pediatri di famiglie”.
Ci vorrebbe un “Piano Marshall” per ripristinare, ove possibile, la serenità, la socialità, la fiducia in sé stessi e nel futuro. Le risorse ci sarebbero. Anzi, ci sarebbero state. Perché nella legge di bilancio 2022 il bonus psicologico (uno stanziamento di 50 milioni l’anno) è saltato.
Ancora non è chiaro, a due anni dall’inizio della pandemia, che risparmiare sulla salute pubblica è una politica scellerata e irresponsabile?
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