Acqua

Pfas e acqua contaminata in Veneto. Come si è arrivati al più grande processo italiano per inquinamento ambientale

Per decenni le acque della seconda falda più grande d’Europa, in Veneto, sono state inquinate con sostanze chimiche, gli Pfas. Un disastro ambientale che ha messo a rischio la salute di un’intera regione e centinaia di migliaia di persone. Finalmente, ha inizio il processo ai responsabili.

Il 20 gennaio al Tribunale di Vicenza si è concretizzata la speranza di 350mila residenti nel territorio vicentino di diventare parte civile contro la società Miteni, ritenuta responsabile di aver inquinato la seconda falda più grande d’Europa.

Sotto alla Miteni il terreno è come una bustina di tè, ogni volta che piove il terreno filtra l’acqua, la riempie di Pfas e la lascia defluire nella falda. E la falda cammina per circa 1,3 chilometri all’anno, spostandosi e colpendo ulteriori acquedotti e persone. 800mila persone sono a rischio, un quarto del Veneto.

Dopo le prime tre di novembre 2019, questa quarta udienza ha confermato la richiesta di rinvio a giudizio per le diverse società internazionali, che dal 1965 si sono succedute nella gestione dell’impianto chimico Miteni, nel comune di Trissino in Veneto. I reati formalizzati sono disastro innominato e avvelenamento delle acque. In caso di condanna potrebbero essere chiamate a risarcire 136 milioni di euro, cifra necessaria per ripulire il territorio dalle sostanze inquinanti, secondo la stima fatta un anno fa dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

Pfas. L'aula del tribunale di Vicenza, dove si è tenuto il processo Pfas
Il 20 gennaio al Tribunale di Vicenza si è tenuta la quarta udienza del processo Miteni © Laura Fazzini

“Un risultato molto positivo, soprattutto aver incluso tra le aziende responsabili anche la società che si è fatta carico del fallimento Miteni. Il giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti ha utilizzato tutti i termini di legge per coinvolgere anche chi si occupa della chiusura economica dell’azienda, mostrando così la forte volontà di perseguire tutti i colpevoli”, ha commentato l’avvocato Matteo Ceruti, rappresentante delle Mamme No Pfas.

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Queste 95 madri residenti nelle zone colpite fanno parte delle 226 parti civili che il giudice ha accolto. Tra queste ci sono i ministeri della Salute e dell’Ambiente, Regione Veneto, diversi comuni e le società che gestiscono le reti idriche colpite. Società che dal 2013 stanno investendo in filtri a carbone attivo, tubazioni nuove e chiusura di pozzi inquinati per raggiungere la soglia di Pfas zero, restando al di sotto di 0,5 nanogrammi per litro di acqua.

Le parti civili accolte nel processo Miteni
I rappresentanti delle parti civili accolte nel processo Miteni, insieme all’avvocato Ceruti © Laura Fazzini

Pfas: le origini del reato, una storia di 50 anni

Nel 1965 nel comune di Trissino in provincia di Vicenza viene costruito un polo chimico dell’azienda tessile RiMar (Ricerche Marzotto), con lo scopo di sviluppare sostanze chimiche innovative per il comparto tessile. Queste sostanze, per la maggior parte composti perfluoro alchilici (Pfas), dovevano servire a rendere idrorepellenti diversi materiali (utilizzati anche per gli indumenti), anche se il loro smaltimento non era stato ancora normato. Negli anni ’70 la fabbrica produceva Pfoa, acido perfluoroottanoico: 250 tonnellate all’anno per scopi farmaceutici e agroalimentari. L’impianto chimico richiedeva ingenti quantità di acqua, per il raffreddamento dei macchinari e la lavorazione dei prodotti, per questo venne collocato sopra il torrente Agno.

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La prima emergenza Pfas si ha già nel 1966, quando uno sversamento nel fiume sottostante la fabbrica inquina sia l’acqua sia il territorio circostante. Negli anni ’70 vengono interrati nell’argine del fiume Poscola, vicino alla fabbrica, decine di fusti contenenti Pfas, che negli anni si spostano, perdono e solo nel 2018 vengono ritrovati da tecnici dell’Arpav. Agli inizi degli anni 2000 nel periodo di massima produzione di Pfas il fiume Fratta, che raccoglie le acque di lavorazione del torrente, riceve 500 miliardi di nanogrammi di sostanze inquinanti al giorno.

Fiume Fratta, Montagnana
Il fiume Fratta, che raccoglie le acque di lavorazione, agli inizi del 2000 ha ricevuto 500 miliardi di nanogrammi di sostanze inquinanti al giorno, tra cui Pfas © Laura Fazzini

Per trattenere gli sversamenti di materiale di lavorazione viene collocata una barriera idraulica solo nel 2006, a seguito di un primo studio americano che collega diverse malattie come cancro a testicoli, prostata, rene, ovaie, linfoma non-Hodgkin alla presenza di Pfas nel sangue. Negli anni precedenti inoltre l’azienda aveva iniziato uno screening ematologico sui propri dipendenti, per cercare i valori di Pfoa e Pfos, le sostanze perfluoroalchiliche che formano una lunga catena di oltre 8 atomi di carbonio e sono totalmente idrorepellenti. Come rimangono nell’acqua restano anche nel sangue, che li bioaccumula senza potersene liberare per almeno dieci anni. Grazie a uno studio voluto da regione Veneto si evidenzia come i dipendenti Miteni arrivino ad avere oltre 90mila nanogrammi di Pfoa nel sangue per litro (la soglia massima è di 8 ng/l per il Pfoa), alzando del 43 per cento le possibilità di morte per malattie legate al sistema linfatico. Infatti queste sostanze modificano il sistema endocrino portando un’alterazione della produzione ormonale, con conseguente insorgenza di tumori, prevalentemente linfomi.

Nel 2013 uno studio del Centro nazionale per le ricerche (Cnr) riscontra la presenza ingente di Pfas nel fiume Po, soprattutto nella parte veneta. Per questo la Regione decide di finanziare un primo screening sui residenti delle provincie di Verona, Vicenza e Padova, i cui risultati (pubblicati nel 2017) fanno partire l’emergenza Pfas.

La situazione attuale, 350mila persone contaminate

Il piano di emergenza regionale prevede un posizionamento di filtri a carbone attivo nei territori colpiti e la delimitazione (definita con il supporto dell’Asl) di tre zone interessate dall’inquinamento: rossa, arancione e gialla. Nella prima i residenti vengono invitati a sottoporsi a esami del sangue, a denunciare i pozzi privati per monitorare le risorse idriche e viene vietata la pesca di fiume. L’Istituto superiore di sanità stila un primo elenco di limiti per quanto riguarda la presenza delle sostanze nei fluidi: 500 nanogrammi al litro per l’acqua, tra 1.8 e 8 nanogrammi al litro per il sangue. I sindaci della zona rossa, con Lonigo come centro, già nel 2017 spingono i propri cittadini a bere dall’acquedotto purificato, dopo che i risultati di Arpav dimostrano come l’inquinante sia sceso sotto i 0.5 nanogrammi per litro. Ma i residenti non si fidano, smettono di comprare a chilometro zero, non denunciano più i propri pozzi e si creano le prime associazioni.

La cartina della zona contaminata da Pfas
Il piano di emergenza regionale ha diviso i territori colpiti in tre zone di inquinamento Pfas: rossa, arancione e gialla © Laura Fazzini

 

La paura della contaminazione, la risposta delle mamme

Giovanna ha cinque figli, tutti con valori tra 150 e 300 nanogrammi per litro nel sangue. Con il marito aveva scelto di trasferirsi in campagna per avere aria pura e terra da coltivare per la famiglia: “Leggere quelle analisi ci ha annientati, ci siamo chiesti cosa fare e abbiamo deciso di smettere la coltivazione privata perché il nostro pozzo era pieno di Pfas. Una casa costruita per far stare bene i nostri figli si è rivelata la causa delle loro possibili malattie”. La loro fortuna è abitare vicino a una superstrada che ha bisogno di un acquedotto per il lavaggio delle auto in due distributori. Così Giovanna e la sua famiglia si agganciano all’acquedotto e decidono di rimanere. Per lottare.

Giovanna non coltiva più la terra e inizia a studiare, vuole capire cosa si deve fare per cambiare le cose. Così nascono le Mamme no Pfas, nascono siti internet di denuncia e associazioni ambientaliste, come Greenpeace e Isde medici per l’ambiente, invitano la popolazione a proteggersi dall’acqua. Vincenzo Cordiano, presidente di Isde Vicenza, dimostra come la presenza di Pfas nel sangue porti a problematiche sanitarie croniche, come ipertensione, colesterolo alto, diabete e a malattie come cancro al fegato e al pancreas: “Queste sostanze mutano il sistema linfatico, lo inducono a produrre in maniera differente e ciò comporta un alto rischio di malattie mortali. Gli studi americani condotti dal C8, un comitato scientifico che nel 2005 lavora su un caso simile di cittadini colpiti da Pfas, evidenziano come problemi alla tiroide, difficoltà al sistema riproduttivo e ipertensione siano comuni in chi risiede nelle zone limitrofe alle fabbriche di Pfas”.

La zona colpita è prevalentemente agricola e sede di allevamenti, con piccoli produttori che vendono a grandi industrie o cooperative © Laura Fazzini
La zona colpita è prevalentemente agricola e sede di allevamenti, con piccoli produttori che vendono a grandi industrie o cooperative © Laura Fazzini

 

La vita agricola sospesa, tra chi continua e chi muore

La zona colpita è prevalentemente agricola e sede di allevamenti, con piccoli produttori che vendono a grandi industrie o cooperative. Già nel 2017 l’Istituto superiore di sanità (Iss) aveva pubblicato un report secondo il quale alcuni prodotti, come il fegato di suino, le uova e il pesce pescato sono da considerarsi contaminati. I limiti per la presenza di Pfas negli alimenti sono dati dall’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) che, a seguito dell’emergenza americana, stabilisce per il Pfos un massimo di 150 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno, mentre per il Pfoa un massimo di 1.5 microgrammi (1.500 nanogrammi) per chilogrammo di peso corporeo al giorno.

Nel luglio 2019 un ulteriore report dell’Iss aggiunge all’elenco degli alimenti da considerarsi contaminati anche mais e latte, “in forma precauzionale, considerando che il latte viene bevuto in grandi quantità dai bambini”, racconta una fonte dell’Istituto che vuole rimanere anonima. Anonimo vuole anche rimanere un residente che da generazioni coltiva il suo frutteto nella zona rossa, alimentandolo con l’acqua del proprio pozzo: “Quando è scattata l’emergenza Pfas, nessuna istituzione ha parlato di contaminazione degli alimenti, tuttora non lo fanno perché c’è il rischio di annientare questa zona produttiva. Hanno imposto di mettere i filtri e i contatori, a nostre spese, senza aiuti economici. Io ho fatto analizzare la mia acqua e per fortuna, benché sia nella zona rossa, non è ancora arrivata a pescare dalla falda inquinata”. Il produttore vende il suo piccolo ricavato a una cooperativa, che esporta frutta in tutto il mondo: “Attualmente nessuna legge prevede vincoli Pfas per l’acqua usata per l’irrigazione. Noi abbiamo deciso di comprare ancora in zona, ma il rischio è alto. Del resto cosa facciamo? I costi per un filtro sono di migliaia di euro al mese, abbiamo dei figli e questa è sempre stata la nostra vita”.

La campagna all'interno della zona rossa
La campagna all’interno della zona rossa © Laura Fazzini

Le bonifiche dimenticate, promesse e in attesa di processo

Il comune di Trissino, che ospita l’azienda Miteni, sull’onda dell’emergenza sanitaria nel 2017 chiede e ottiene dalla regione Veneto e dalla provincia di Vicenza di iniziare una procedura di bonifica del sito Miteni. Malgrado l’azienda fosse ancora in attività le istituzioni spingono perché fin da subito vengano stanziati fondi per frenare l’inquinamento ancora in atto.

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La richiesta però rimane su carta e nel 2018 regione Veneto chiede a Miteni di ottemperare alle operazioni di bonifica in quanto responsabile del danno, acclarato dopo la chiusura delle indagini del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri di Vicenza. La società nel frattempo dichiara fallimento a ottobre 2018, lasciando oltre 400 operai a casa, e ricorre al Tar per evitare di dover pagare i costi di un primo piano di bonifica redatto da Regione Veneto. Solo il 31 dicembre 2019, obbligata per legge, la società deposita un progetto di bonifica che è al vaglio delle istituzioni competenti.

Emergenza Pfas
Dal governo sono stati finanziati 80 milioni per i lavori che stanno servendo a cambiare gli allacciamenti alla falda contaminata per portare acqua zero Pfas nelle case dei residenti © Laura Fazzini

L’orizzonte futuro, invisibile e preoccupato

Dal governo sono stati finanziati 80 milioni per i lavori che stanno servendo a cambiare gli allacciamenti alla falda contaminata, per portare acqua zero Pfas nelle case dei residenti. “Non ci sarà nessun aumento aggiuntivo nella bolletta dei nostri clienti, i costi per questi lavori faranno parte dei 30 milioni annui che Acquevenete prevede come investimento per la propria rete”, ha confermato Manuela Manto, direttore generale della società idrica più colpita. Risposta chiara alle continue polemiche sulle bollette in aumento che spesso compaiono sui giornali. Ma i residenti non si fidano, stanno già pagando circa 1,5 euro all’anno a persona per l’attivazione dei filtri e ora vogliono chiarezza sulle spese, “È sempre così, quando si parla di investimenti pubblici i soldi li si trova nelle tasche dei contribuenti”, conclude la consigliera regionale e agricoltrice Cristina Guarda.

La contaminazione che da oltre 50 anni ha macerato la terra vicentina non è visibile, i campi e gli allevamenti si susseguono vicino alle strade che portano dalla zona rossa all’esterno del triangolo avvelenato. Ogni tanto compaiono cantieri per il cambio delle tubazioni degli acquedotti, un lavoro iniziato già nel 2013 dalle società idriche. Il 23 marzo 2020 si entrerà finalmente nel merito dibattendo sui reati per disastro ambientale innominato e avvelenamento di acque e sostanze alimentari. “Staremo a vedere e chiederemo conto, come del resto facciamo dal 2015”.

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