Erano scomparse nel secolo scorso. Un progetto governativo ha importato dai Paesi Bassi due esemplari di tigri dell’Amur che vivranno in libertà in un parco nazionale.
La Tanzania non sarà più la riserva di caccia della famiglia reale di Dubai
Dopo 25 anni la Tanzania ha interrotto il controverso accordo che consentiva ai reali di Dubai di cacciare in una vasta area del Loliondo.
Per anni la famiglia reale di Dubai ha ucciso migliaia di animali in Tanzania, tra cui leopardi, leoni, bufali, iene e babbuini, in una riserva di caccia grossa nelle terre intorno al distretto di Loliondo. Dopo venticinque anni però il Paese africano ha deciso di chiudere la controversa concessione di caccia rilasciata nel 1992 alla Ortello Business Corporation (Obc), azienda che ha sede negli Emirati Arabi Uniti ed è di proprietà di un funzionario del ministero della difesa strettamente legato alla famiglia reale, dopo aver avviato un’indagine sui rapporti poco trasparenti tra la compagnia araba e alcuni ex ministri della Tanzania.
La riserva di caccia del re
La licenza, arrivata direttamente dal presidente tanzaniano, concedeva alla Obc diritti esclusivi di caccia nella Loliondo Game Controlled Area (Gca), un’area di oltre 6mila chilometri quadrati nel nord della Tanzania caratterizzata da un’elevata concentrazione di biodiversità. Nonostante la Obc apparisse nella lista degli operatori turistici autorizzati dal governo tanzaniano a cacciare a Loliondo era solo il re con il suo entourage.
C’è del marcio in Tanzania
La scarsa chiarezza dietro la concessione e il forte sospetto di corruzione hanno spinto il nuovo ministro delle Risorse naturali, Hamisi Kigwangalla, a ordinare all’Ufficio per la prevenzione e la lotta alla corruzione (Pccb) di indagare su Isaac Mollel, direttore esecutivo della Obc, colpevole di aver cercato di corrompere lo stesso Kigwangalla e i suoi predecessori. Il ministro ha inoltre avviato un’indagine a carico dei precedenti ministri implicati nella vicenda e ha sospeso dal suo incarico il direttore della fauna selvatica della Gca, Alexander Songorwa. Kigwangalla ha infine affermato che alla compagnia degli Emirati Arabi non verrà più assegnata un’altra area di caccia.
Loliondogate
L’ombra della corruzione e la violazione dei diritti dei Masai hanno portato la stampa a chiamare il caso Loliondogate. Secondo quanto riportato dal quotidiano The EastAfrican, dai registri governativi risultano ingenti donazioni elargite dalla famiglia reale di Dubai al principale partito politico della Tanzania, il Chama Cha Mapinduzi, e al Ministero delle risorse naturali e del turismo, che nel 1994 hanno superato i due milioni di dollari. Oltre a corrompere i funzionari tanzaniani i reali arabi sarebbero colpevoli di pratiche illegali di caccia, volte ad attirare con mezzi non consentiti gli animali, come la creazione di pozze d’acqua artificiali o l’utilizzo del fuoco per indirizzare le prede in una direzione.
La rabbia dei Masai
Fin dal rilascio della concessione di caccia i Masai, antichissimo popolo di pastori, cacciatori e guerrieri, si sono lamentati per essere stati esclusi dal processo decisionale nonostante vivessero nell’area del Loliondo. Nel 2014 40mila pastori Masai hanno rischiato di essere cacciati dalla loro terra ancestrale perché coincideva con la riserva di caccia degli sceicchi. Dopo una lunga polemica è stato raggiunto un accordo che consentiva ai pastori di far pascolare gli animali nell’area della concessione. Tuttavia gli anziani di sei villaggi che sorgono nella Loliondo Game Controlled Area hanno denunciato diversi soprusi ai loro danni. Non sarebbero ammessi nell’area di caccia assegnata alla Obc, devono lasciare la zona ogni volta che la famiglia reale arriva per una battuta e sostengono che la Obc neghi loro l’accesso all’acqua e al pascolo.
Turismo di caccia
Il ministro delle Risorse naturali ha sospeso l’assegnazione delle nuove licenze di caccia che sarebbero state rilasciate nel gennaio 2018, spiegando che il governo, alla luce delle recenti indagini, ha dato agli esperti di conservazione della fauna selvatica sessanta giorni per rivalutare l’attività venatoria. La decisione ha provocato le proteste da parte dei cacciatori che avevano già prenotato le battute di caccia e delle associazioni che sostengono questa attività.
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