7 previsioni sul futuro della moda dal Venice sustainable fashion forum

Mentre le aziende della moda si attivano per cambiare, al Venice sustainable fashion forum diventano sempre più centrali l’Unione Europea e i consumatori.

Parola d’ordine, accelerare. Sembra di averla già sentita fin troppo in tutti i settori. In questo caso, si parlava di transizione della moda alla seconda edizione del Venice sustainable fashion forum, organizzato il 26 e 27 ottobre 2023 da Sistema Moda Italia, lo European House Ambrosetti e Confindustria Veneto Est. Boosting Transition era il titolo della due giorni che, al netto di una certa retorica iper positiva sul Made in Italy, ha sicuramente avuto il merito di raccogliere le istanze e difficoltà di un sistema che si trova a un bivio decisivo. Come ha detto Sergio Tamborini, presidente di Sistema Moda Italia: “Il cambio di paradigma è un processo irreversibile per riscrivere le sorti della manifattura italiana. Quella circolare è una filiera completamente da reinventare, accompagnata da una visione alternativa dell’economia e dei consumi”.

Venice Sustainable Fashion Forum
Sergio Tamborini, presidente di Sistema Moda Italia, ha sottolineato l’urgenza della transizione sostenibile per la manifattura italiana.© Venice sustainable fashion forum

Non è un caso, però, che le voci più critiche al Venice sustainable fashion forum fossero quelle degli stranieri o di chi lavora in istituzioni internazionali, che riescono ad avere una visione più obiettiva dello stato della moda in Italia. La manifattura italiana è sinonimo di eccellenza, vero, sicuramente c’è la volontà di cambiare, ma perché siamo così in ritardo anche solo rispetto ai cugini francesi che hanno già messo in piedi un migliore sistema circolare e la cosiddetta Responsabilità estesa del produttore?

I saluti iniziali sono arrivati dal Commissario europeo per l’ambiente Virginijus Sinkevičius, che con il sorriso ha ricordato lo tsunami legislativo che si sta per abbattere sull’intera industria tessile e manifatturiera europea: “Potete farcela, in fondo il cambiamento è l’essenza della moda”, ha detto a una platea di 400 addetti ai lavori, imprenditori della filiera, manager di sostenibilità.

Il tema della legislazione è anche il primo punto dello studio Just Fashion Transition 2023 presentato da Carlo Cici, responsabile Area Sustainability di The European House Ambrosetti. Lo studio ha raccolto dati da 2.800 aziende del comparto moda e tessile, italiane ed europee. Queste le 7 maggiori evidenze dello studio (non mancano le considerazioni sul ruolo dei consumatori).

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Carlo Cici, responsabile Area Sustainability di The European House Ambrosetti, presenta lo studio Just Fashion Transition 2023.©Venice Sustainable Fashion Forum

1. Dove non arriva l’autoregolamentazione, arriva l’Unione Europea

Si contano tra le 14 e le 16 azioni legislative che interesseranno a breve il settore tessile europeo e, di conseguenza, quello della moda. A partire dalla EU Textile Strategy, lanciata nel 2022, la pressione legislativa sembra essere l’unica soluzione per dare un’accelerata definitiva alla transizione in questo settore. Ad esempio, il Regolamento sull’ecodesign prevede regole di progettazione specifiche per le categorie di prodotto in modo da migliorarne la circolarità e l’impatto (una moda circolare con capi e oggetti più facilmente disassemblabili e in materiali facilmente riciclabili). Tuttavia, è stato ricordato al Forum come il riciclo non possa essere la panacea, anche perché attualmente disponiamo solo di una parte di tecnologie necessarie per il riciclo da tessuto a tessuto e, inoltre, non siamo in grado di gestire i volumi di rifiuti tessili che produciamo (dal 2025 sarà obbligatoria la raccolta differenziata del tessile). La rivoluzione maggiore arriverà dall’applicazione della Responsabilità estesa del produttore – EPR, ovvero la presa in carico del fine vita del prodotto da parte di chi lo produce.

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Il panel sulle nuove legislazioni europee in arrivo, con Maria Teresa Pisani, Serenella Sala, Mara Chilosi, Remo Taricani, Alessandra Moretti.©Venice Sustainable Fashion Forum

2. Ci piace la sostenibilità, ma chi la paga?

È stato calcolato che un capo sostenibile costa il doppio di uno tradizionale, ma può essere rivenduto a quattro volte tanto. È una buona notizia visto che intanto la spesa media dei consumatori scende drasticamente? Il costo di produzione complessivo per una maglietta tradizionale in cotone è di circa $3,87. Il capo viene poi rivenduto al consumatore ad un prezzo di circa 2 volte superiore (fino a $8). Casi studio mostrano invece che produrre una maglietta in cotone etico da commercio equo e solidale possa costare fino a $8,72 con un prezzo al dettaglio di circa $36 – quattro volte superiore al costo di produzione. C’è modo di non caricare questo aumento sul consumatore ma internalizzarlo almeno in parte? Chi si deve fare carico dei costi della transizione sostenibile? Queste domande rimangono aperte e sono tornate, in diverse forme, durante i panel del forum.

3. La fibra “sostenibile” non esiste

Il profilo ambientale e di impatto delle fibre tessili è estremamente complicato da delineare, anche a causa di una mancata condivisione di dati e sistemi di misurazione. Secondo lo studio Just Fashion Transition 2023: “Mentre le fibre naturali sono comunemente percepite come più rispettose dell’ambiente in quanto rinnovabili e biodegradabili, i dati testimoniano che, in alcuni casi, possono esercitare impatti ambientali maggiori rispetto alle alternative sintetiche o artificiali”. Il cotone ne è un esempio, anche se a oggi si calcola che circa il 70 per cento delle fibre utilizzate per confezionare abiti e tessuti da arredamento sono sintetiche (es. poliestere e nylon).

Lo sviluppo di nuove tecnologie risulterà sempre più fondamentale per abbassare l’impatto del settore, non solo tecnologie per il riciclo (che usino meno acqua, meno energia e diano materiali migliori), ma anche strumenti più avanzati per la progettazione e il design e l’Intelligenza Artificiale per prevedere le vendite e gestire meglio tutti i passaggi della produzione. È stato ricordato, inoltre, come la sostenibilità di un capo o accessorio sia direttamente collegata al suo periodo di utilizzo: il problema sono quei prodotti con un grande impatto e un breve periodo d’uso. Per questo diventa cruciale il ruolo dei consumatori.

4. Dobbiamo cambiare il modo in cui acquistiamo moda

Nel giro di pochi anni sarà introdotto sul mercato europeo (sempre in forza di un’azione legislativa dell’UE) il cosiddetto passaporto digitale: ogni capo di abbigliamento dovrà essere accompagnato da un set di dati e informazioni certificate che, in modo trasparente e facilmente comprensibile, spieghino l’impatto di quel prodotto. Una vera rivoluzione che risponderà a una delle lamentele più frequenti di chi fa shopping, ovvero la carenza di informazioni e la poca fiducia verso i brand che le offrono.

Tuttavia, bisogna chiedersi se saremo in grado di comprendere queste informazioni, data la scarsa conoscenza della tematica sostenibilità, e in aggiunta la scarsa consapevolezza di quello che significa acquistare un capo di abbigliamento. Ad esempio, oggi circa il 30 per cento degli acquisti online viene restituito, e il 70 per cento di questi resi è il risultato di un “cambio di idea”, senza rendersi conto delle ripercussioni: come per esempio il conferimento in discarica di un’ingente quantità di capi “indesiderati”. Una parte considerevole finisce in Africa, dove più del 50 per cento dei vestiti usati diventa immediatamente rifiuto.

5. Riciclo deve far rima con riuso e con una produzione più oculata

Il tema dei rifiuti è stato al centro di un dibattito al Venice Sustainable Fashion Forum 2023: in Europa si producono ogni anno dai 5,2 ai 7,5 milioni di tonnellate di rifiuti tessili pari a circa 26 miliardi di capi di abbigliamento (con una crescita del 20 per cento prevista al 2030). In media su 35 articoli tessili gettati 3 vengono riciclati e meno di 1 viene riutilizzato nel mercato domestico. Il fine vita dei prodotti tessili è una questione centrale: come detto, non solo non disponiamo delle tecnologie per gestire questi volumi, ma è stato calcolato che il riuso consente di evitare fino al 97 per cento delle emissioni di CO2 e di ridurre del 99 per cento il consumo di acqua rispetto al riciclo chimico. Ed evidentemente il riuso è collegato alla qualità del prodotto in questione.

La moda, inoltre, si distingue come il settore con il maggior volume di rifiuti esportati verso Paesi non OCSE, un quantitativo che solo in Europa è quintuplicato negli ultimi vent’anni raggiungendo 1,7 milioni di tonnellate. Sicuramente saranno posti dei limiti legislativi europei a queste esportazioni in futuro, ma, soprattutto, come ha ricordato Chloe Asaam di The Or Foundation in Ghana, la moda deve assumersi la responsabilità di ciò che non è in grado di vendere o di ciò che viene gettato dai consumatori. Lisa Lang, Director Policy & EU Affairs – KIC Climate, ha sottolineato che “la sovra produzione non è solo un problema del fast fashion ma di tutto il sistema moda. Si calcola che la moda abbia una sovra produzione di pezzi dal 30 al 40 per cento (in confronto allo 0,2 per cento dell’industria tecnologica-digitale)”.

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Lisa Lang, Director Policy & EU Affairs – KIC Climate, ha sottolineato il problema della sovra produzione e della carbon footprint dell’industria moda.©Venice Sustainable Fashion Forum

6. Diritti umani (soprattutto delle donne), grandi assenti del forum 

Per quanto le aziende presenti al Venice sustainable fashion forum fossero principalmente italiane, il tema delle catene di fornitura globali non è stato particolarmente evidenziato. Oltre ai già citati cittadini di quei Paesi che sono letteralmente soffocati dai rifiuti tessili del Nord del mondo, si aggiunge la poca trasparenza e poca conoscenza della propria catena di fornitura, il che è direttamente collegato anche alla gestione delle emissioni Scope 3.

Sempre secondo Just Fashion Transition 2023: “A 10 anni di distanza dal disastro del crollo al Rana Plaza, in Bangladesh, solo 1,5 milioni di lavoratori sui 75 milioni che compongono il settore globale riceve un salario adeguato e dispone di contratti di assunzione formali, orari di lavoro stabili o protezioni stabilite in base al diritto del lavoro. L’aumento delle violazioni dei diritti del lavoro nell’industria della moda è stato trainato specialmente dall’incremento di lavoro forzato, modern slavery e lavoro minorile. Sono sempre più diffuse giornate lavorative da 10 a 18 ore, persino 7 giorni a settimana nei periodi più intensi”. Siccome è noto che circa l’80 per cento di quei 75 milioni di lavoratori sono donne (dati Clean Clothes Campaign), è chiaro su chi pesi maggiormente tutto questo.

7. Fare sistema, con i fornitori e con la finanza

Rendicontare in modo trasparente il proprio percorso di sostenibilità inizia a non essere più una scelta volontaria. Diventerà obbligatorio per un numero sempre maggiore di aziende, ma per la manifattura italiana la pressione a farlo già oggi è spinta in primis dai brand di moda, che acquistano i semilavorati, e dalla finanza, che sempre più vuole dati chiari e certi per dare accesso al credito. Tra il 2021 e il 2022, il numero di aziende europee della moda che presidiano la sostenibilità è aumentato del 17 per cento.

Lo studio si conclude con otto proposte per una transizione giusta della moda globale, che riassumono le questioni chiave della due giorni del Venice sustainable fashion forum 2023. Gli strumenti che l’Unione Europea sta studiando per accelerare la transizione del sistema moda rischiano di travolgere un intero settore se non verranno anticipati con un’adeguata preparazione dalle aziende, facendo alleanza con i partner e con gli altri attori della filiera. Questo non può prescindere dalla promozione di un nuovo modello di consumo della moda: serve un vero cambiamento culturale per tornare a valorizzare l’acquisto di capi di abbigliamento.

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