42 reperti archeologici rubati restituiti dagli Usa. Ma il problema siamo (anche) noi

Il procuratore di New York ha restituito al console italiano 42 reperti archeologici rubati. Valgono 3,2 milioni di euro e risalgono anche 2.500 anni fa.

La notizia: l’Italia recupera 42 reperti archeologici rubati, alcuni dei quali hanno circa 2.500 anni, e che hanno un valore complessivo di 3,5 milioni di dollari, pari a 3,2 milioni di euro. La restituzione al console Cesare Bieller è avvenuta lo scorso 8 agosto durante una cerimonia che si è svolta a New York alla presenza di Alvin Bragg, procuratore di New York del distretto di Manhattan.

Durante l’evento, Bragg ha precisato che nell’ultimo anno e mezzo a Roma sono state restituite oltre 450 opere, mentre il generale dei Carabinieri Vincenzo Molinese, presente alla cerimonia, ha sottolineato che questo è stato possibile solo grazie a una stretta collaborazione tra le forze dell’ordine italiane e quelle statunitensi. Ricordiamo che in Italia il corpo preposto è appunto quello dei Carabinieri, col preparatissimo nucleo Tutela patrimonio culturale (Tpc).

Bragg ha inoltre ricordato che l’Italia non è l’unico Paese destinatario delle restituzioni di beni archeologici oggi appartenenti a musei e privati grazie a operazioni d’acquisto che in passato si sono svolte in modo molto poco trasparente. Le opere finora restituite sarebbero infatti almeno un migliaio, destinate a 19 Paesi: tra questi, oltre all’Italia, ci sono anche Cambogia, Cina, India, Pakistan, Egitto, Irak, Grecia, Turchia e altri. Le operazioni sono iniziate già nel 2017, prima della procura di Bragg, e riguardano opere trafugate tra 1970 e 1990 e poi acquistate da importanti musei grazie ad altrettanto importanti case d’aste negli Stati Uniti e in Europa.

reperti archeologici rubati
Cerimonia di consegna dei reperti archeologici rubati, alla presenza del console italiano Cesare Bieller e al generale dei Carabinieri Vincenzo Molinese. © La voce di New York

Il mercato clandestino dei reperti archeologici rubati

Nello specifico, tra i reperti e gli oggetti recuperati in questa “tornata” di restituzioni, ci sono anfore e vasi di diverse dimensioni, lastre dipinte, piccole sculture e manufatti in oro. Tra i vasi, per esempio, c’è un cratere (un vaso per mescere acqua e vino) rubato da una sepoltura in Puglia, datato al 335 a.C., contrabbandato grazie a un trafficante d’arte e intermediario italiano, Giacomo Medici e rivenduto grazie alla casa d’aste Sotheby’s di Londra a un collezionista privato.

Medici, già nel 2022, era stato al centro di un’inchiesta delle procure di Roma e di Foggia per reperti magnogreci ora esposti a Berlino, provenienti dal mercato clandestino e veicolati al museo tedesco negli anni Ottanta attraverso trafficanti con base in Svizzera. L’uomo è stato condannato a dieci anni di carcere e al pagamento di un risarcimento di 10 milioni di euro per ricettazione e associazione a delinquere, per avere venduto reperti archeologici frutto di scavi clandestini o in alcuni casi derivati addirittura dal danneggiamento di siti archeologici italiani.

Anche se nel processo erano coinvolti anche la responsabile acquisti archeologici del Getty Museum, Marion True, e il mercante americano Robert Hecht, Medici è stato l’unico condannato perché per gli altri è scattata la prescrizione.

Antichità rubate: di cosa stiamo parlando davvero?

Anche se quella che vi stiamo riportando sembra una buona notizia, perché la restituzione di reperti archeologici rubati dal nostro territorio riguarda la nostra storia e la nostra identità, in realtà si tratta di una notizia buona solo a metà.

1. Archeomafie

Dobbiamo per esempio ricordare che le indagini che portano alle restituzioni sono un ottimo punto di partenza – e non di arrivo – per far conoscere quello che è un problema sistemico e che oggi prende il nome di archeomafia. Esistono infatti vere e proprie organizzazioni criminali che si occupano di scavi clandestini, razzie nei siti archeologici, furti e traffici illegali. I tombaroli sono solo il primo anello della catena. Poi ci sono gli intermediari e i trafficanti, che lavorano per conto di committenti e ricettatori, che infine vendono ai compratori, che a volte sono privati con velleità culturali, altre sono vere e proprie istituzioni museali straniere. Per le organizzazioni criminali, occuparsi di reperti è molto interessante, perché serve a riciclare il denaro ottenuto con droga e armi. Secondo i dati 2022 di Legambiente, i reati di archeomafia sono stati l’anno scorso 404, con un calo importante rispetto alle prime misurazioni (nel 2009 erano 1.100), ma comunque elevati. Il podio delle regioni saccheggiate vede la Sardegna in testa (17% dei furti), con Lombardia (11,8%) e Lazio (10,8%).

Le organizzazioni criminali che trafficano reperti a livello globale sono moltissime. Basti ricordare che nel 2015, le distruzioni sistematiche di Ninive e Nimrud a opera dell’Isis e il recupero e la vendita dei reperti hanno rappresentato la terza fonte di finanziamento per il Califfato, preceduta solo dal controllo dei pozzi petroliferi e dai riscatti dei sequestri.

2. La cultura dell’avventuriero

Poi dovremmo riflettere sul fatto che il furto e l’appropriazione di reperti sono anche un problema culturale. Primo, perché in occidente non si sono mai spenti il mito dell’avventuriero alla Indiana Jones, che incarna i valori di un’archeologia intrisa di colonialismo da una parte e passione per l’antiquaria dall’altra o quello del ladro gentiluomo, alla Lupin, coltissimo e molto glam. Non importa se la scienza archeologica oggi – e da circa settant’anni – è ormai un’altra cosa. Secondo perché nell’immaginario collettivo, l’archeologia si associa al reperto meraviglioso, da possedere o da esporre, più che da studiare, capire, inserire in reale discorso sull’identità locale prima e collettiva poi.

3. Cosa dice il codice dei Beni culturali

Notizie come questa, poi, dovrebbero ricordarci anche quanto siamo ignoranti in tema di legislazione dei beni culturali. L’articolo 91 del Codice dei Beni culturali afferma chiaramente che

“Le cose di interesse archeologico da chiunque ed in qualunque modo ritrovate, nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato”.

Quando avvengano ritrovamenti fortuiti – per strada, in un sentiero, nel giardino di casa, nel proprio terreno – si ha l’obbligo di denunciarli entro 24 ore “alla Soprintendenza o al Sindaco o all’autorità di pubblica sicurezza e di provvedere alla loro conservazione lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute”. Della scoperta devono essere informati anche i Carabinieri. Se non è possibile garantire la custodia dei beni, questi vanno rimossi e spostati con l’aiuto delle forze dell’ordine, e le spese sono poi rimborsate dal Ministero. Il proprietario dell’immobile in cui è avvenuto il ritrovamento, il concessionario dell’attività di ricerca e lo scopritore fortuito che ha avvisato tempestivamente le autorità possono ricevere una ricompensa non superiore a un quarto del valore degli oggetti ritrovati. Va da sé che chi scava clandestinamente nei terreni altrui o non avvisa le autorità della presenza di reperti sul proprio terreno, non ha diritto ad alcuna ricompensa.

Fare più divulgazione su questi temi consentirebbe di avere meno perdite accidentali.

4. Il contesto conta più della bellezza

Ultimo punto su cui dovrebbe farci riflettere una storia come questa è il danno scientifico – quindi legato alla nostra storia e alla nostra identità – incalcolabile causato dal furto di beni archeologici. Di alcuni dei reperti archeologici rubati e ora restituiti possiamo risalire al periodo per stile pittorico, o per tipologia dei vasi. Ma nessuna di queste opere ha più un contesto, ovvero per nessuna di esse è possibile ricostruire il luogo in cui è stata trovata, con quali altri oggetti, in che posizione, in che tipologia di tomba. Cioè, sono tutte opere “belle”, che al massimo testimoniano la bravura del ceramista o dell’artigiano. E poi? Questo, oggi, per l’archeologia non è sufficiente. Togliere un reperto dal suo contesto originario e non documentare, cioè non descrivere il luogo in cui è stato trovato, significa lasciarlo “da solo”. Il contesto archeologico racconta una storia, l’oggetto da solo ne racconta solo una parte molto piccola.

Sarebbe come prendere una persona e separarla per sempre dalla sua famiglia, dal suo luogo natale, dai suoi amici. Potremmo vederla, apprezzarla, conoscerla, ma non capirla fino in fondo, perché le personalità sono fatte di relazioni. Ecco, anche l’archeologia è fatta di relazioni, tra terra, oggetti e persone che li hanno maneggiati, usati, sepolti.

Questi oggetti restituiti aggiungono davvero poco alla nostra storia e alla nostra identità, perché dei criminali li hanno costretti alla “solitudine”.  Pensiamoci, la prossima volta che entriamo in un museo.

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