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Dal 30 novembre a Palazzo Braschi di Roma saranno esposte le opere di Artemisia Gentileschi, un grande talento femminile nel panorama dell’arte italiana, prettamente maschile a quei tempi.
Nata a Roma nel 1593 e morta a Napoli nel 1653, ha vissuto e lavorato principalmente in tre città: Firenze (dal 1613 al 1620), Roma (dal 1620 al 1626) e Napoli (dal 1626 al 1630). Sin dalla più tenera età, Gentileschi fu iniziata alla pittura dal padre, pittore seguace della tecnica caravaggesca.
È stata riscoperta, come artista, solo agli inizi del Novecento, grazie all’opera dello storico dell’arte Roberto Longhi. Per oltre tre secoli la figura dell’artista era stata messa in ombra dalla vicenda che segnò, in maniera profonda, sia la vita privata della donna, sia la sua memoria futura: lo stupro subito da Agostino Tassi, collega e amico del padre della giovane.
La tela che raffigura Giuditta che decapita Oloferne (1612-13), conservata al Museo nazionale di Capodimonte, impressionante per la violenza della scena che raffigura, è stata interpretata in chiave psicologica e psicoanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Dopo la conclusione del processo per stupro, il padre combinò per Gentileschi un matrimonio con un modesto artista fiorentino, che servì a restituirle, violentata, ingannata e denigrata da Tassi, uno status di sufficiente “onorabilità”.
Nonostante queste vicende dolorose grazie alla sua arte fu una donna indipendente, soprattutto sul piano economico, al punto di poter abbandonare il marito e di crescere da sola i suoi figli, divenendo così una figura simbolo del femminismo e del desiderio di emancipazione dal potere maschile.
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