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Secondo un nuovo studio l’aumento del 5% della superficie delle aree protette in zone strategiche consentirebbe di triplicare la protezione della biodiversità.
Talvolta anche un piccolo cambiamento, in apparenza insignificante, può fare la differenza. Ne è convinto un gruppo di scienziati, guidati da Laura Pollock dell’Università di Grenoble-Alpes, che ha pubblicato lo studio Large conservation gains possible for global biodiversity facets sulla rivista Nature. Secondo i ricercatori se si aumentasse la superficie delle aree protette, anche solo del 5 per cento ma in zone strategiche, la protezione dei mammiferi e degli uccelli che le abitano potrebbe triplicare. Questo studio, pubblicato in concomitanza con la Giornata mondiale dell’ambiente, potrebbe rappresentare una speranza per il futuro delle specie animali sempre più minacciate.
Per condurre lo studio gli scienziati hanno preso in esame tutte le parti del mondo attualmente sotto protezione e hanno censito il numero di specie di mammiferi e uccelli conosciuti in quei luoghi. Gli autori della ricerca hanno inoltre valutato altri due fattori, il ruolo ecosistemico che gli animali ricoprono nei rispettivi habitat, e le peculiari caratteristiche evolutive, spesso misurate in milioni di anni, che contraddistinguono quegli animali.
Entrambi questi fattori, così come il numero di specie animali, potrebbero essere tutelati meglio se le aree protette venissero ampliate del 5 per cento. “La maggior parte della conservazione si limita a guardare alla specie da proteggere”, ha spiegato Laura Pollock, secondo la quale il tipico approccio prevede l’individuazione di un hotspot della biodiversità nel quale poi si concentra la protezione. Tuttavia, secondo i ricercatori, il 26 per cento delle specie di uccelli e mammiferi non si trova nelle aree protette.
La maggiore tutela della biodiversità non avvantaggerebbe solo gli animali, “quelle specie sono infatti fondamentali per far funzionare bene gli ecosistemi in cui vivono”, ha dichiarato Pollock. In molti casi servizi ecosistemici forniti da queste specie sono fondamentali per la nostra esistenza. Gli uccelli, ad esempio, contribuiscono alla dispersione dei semi garantendo la salute delle foreste che a loro volta assorbono grandi quantità di anidride carbonica. Oppure i pipistrelli regolano i numeri delle zanzare limitando così le potenziali malattie.
Alcuni di questi animali sono inoltre frutto di milioni di anni di storia evoluzionistica, alcune scoperte in questo ambito sono state possibili solo grazie al recente sviluppo dello studio dei dati genetici. “Non avremmo potuto fare questa analisi dieci anni fa”, ha affermato Pollock. Nella propria banca del Dna la Società zoologica di Londra ospita i dati genetici di alcune delle specie maggiormente a rischio e gestisce inoltre il programma Edge of existence.
Le specie Edge, ovvero Evolutionarily distinct and globally endangered, sono quelle creature distinte sulla scala evolutiva e in pericolo di estinzione. La scomparsa di una di queste specie potrebbe costituire la definitiva perdita di un intero ramo dell’albero evolutivo.
Le specie più rappresentative e carismatiche di questa lista sono l’elefante asiatico (Elephas maximus) e il rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis). L’esempio perfetto di diversificazione evolutiva è però rappresentato dall’echidna (Zaglossus), bizzarro mammifero oviparo dell’antico ordine dei Monotremi. Questi animali, che depongono le uova ma allattano i piccoli, si sono “separati” dai mammiferi circa 160 milioni di anni fa. Due delle quattro specie di echidna esistenti sono classificate come in pericolo critico dalla Iucn.
Secondo Pollock questi animali sarebbero “la chiave della diversità genetica e del nostro patrimonio ancestrale”, e la sua ricerca dimostra che la protezione dei loro habitat potrebbe essere vantaggiosa per la diversità della vita sulla Terra. “L’attuale superficie totale delle aree protette non è stata pensata in modo ottimale – ha affermato – potrebbe essere molto, molto meglio”.
Gli autori dello studio concludono che, sebbene sia poco realistico ampliare del 5 per cento tutte le aree protette del pianeta, è comunque possibile modificare le attuali strategie di conservazione grazie alle nuove informazioni genetiche, stabilendo ciò che è effettivamente importante per preservare “un pool globale della biodiversità”. I risultati dello studio possono essere applicati con successo anche a piccole aree, l’impiego di questo approccio a livello locale potrebbe significare l’ottimizzazione delle riserve, con notevoli vantaggi per la biodiversità. “Non c’è bisogno necessariamente di triplicare la biodiversità – ha concluso Pollock – anche il dieci per cento di più sarebbe molto meglio di quello che abbiamo adesso”.
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