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Secondo un recente studio, il numero di leontocebi in Brasile ha raggiunto 4.800 individui, dopo aver combattuto con l’estinzione e la febbre gialla.
Nella foresta atlantica brasiliana un’incredibile opera di conservazione della natura ha permesso la sopravvivenza della popolazione di leontocebi rosalia (Leontopithecus rosalia), scimmie simili a piccoli leoni – così come furono descritte nel 1519 dai seguaci di Magellano.
I leontocebi rosalia sono famosi per la loro folta pelliccia col rame e, osservandoli, risulta chiaro perché i primi esploratori le chiamarono piccoli leoni. Queste scimmie vivono in gruppi familiari guidati da una coppia dominante. Solitamente quest’ultima dà alla luce due cuccioli e tutti i membri del gruppo la aiutano nelle cure parentali. L’associazione Golden lion tamarins ha condotto un’indagine durata circa un anno, utilizzando richiami vocali (si emette tramite altoparlante il verso dell’animale e si attende la sua risposta). La ricerca ha stimato una popolazione di circa 4.800 individui. Numero che fa esultare i ricercatori poiché nel 2019 se ne contavano circa 2.500.
È stato proprio a partire dall’arrivo dei coloni che sono iniziati i problemi per questa specie. Dopo secoli in cui popolavano la foresta brasiliana, nel XVII secolo divennero gli animali domestici preferiti in Europa. Basti pensare che Madame de Pompadour, la favorita (l’amante ufficiale) di re Luigi XV, ne aveva acquistato uno per la corte di Francia. Ma con il passare del tempo la situazione non migliorò: negli anni Sessanta addirittura l’esportazione era libera e circa cento leontocebi a settimana raggiungevano sia il vecchio continente che gli Stati Uniti che, al tempo, contavano più leontocebi del Brasile. A contornare questi cinquecento anni di traffici, la colonizzazione ha distrutto la foresta: quasi il 90 per cento degli habitat originali è andato perduto, sostituito da pascoli, coltivazioni e aree urbane.
Per fortuna, nel 1974 si iniziò a comprendere il problema e cercare di salvare i leontocebi. A quel tempo si contavano 100 individui in natura e 70 sparsi per gli zoo del mondo, una situazione drammatica. Nel 1984 iniziarono le prime reintroduzioni ma, dei quindici individui reintrodotti, solamente due riuscirono a sopravvivere. Nessuno si diede per vinto e si capì che il problema risiedeva nell’addestramento delle scimmie. Infatti, una scimmia nata e cresciuta in uno zoo e trasferita nella foresta difficilmente sopravvive: non riesce a cacciare oppure mangia alimenti velenosi e muore. Così, negli anni successivi, i ricercatori riuscirono ad addestrare le scimmie (ad esempio con mangiatoie complesse in cui era nascosto il cibo) e, qualche anno più tardi, reintrodussero altri 37 leontocebi. Solo tre di loro morirono.
La popolazione continuò a prosperare fino al 2014, quando si contavano ben 3.700 individui. Ma un’altra piaga si stava per abbattere sui leontocebi: la febbre gialla, un’ondata di distruzione. Nel giro di pochi anni la popolazione crollò. Gli scienziati intervennero subito vaccinando più di 370 scimmie, con vaccini contro la febbre gialla adattati da quelli utilizzati per gli esseri umani. Questa soluzione abbastanza nuova per la conservazione, unita al normale ciclo vitale del virus, arrestò l’espandersi della malattia. Nel 2019 si contavano 2.500 individui in natura.
Oggi finalmente il numero è tornato a crescere, unito all’aumento del 16 per cento degli habitat forestali registrato tra il 2014 e il 2022 principalmente attraverso la conversione dei pascoli. Questo successo non è stato merito solo degli scienziati: già a partire dagli anni Ottanta, parallelamente alle reintroduzioni, è stato avviato un programma per educare le popolazioni locali ai leontocebi e alla propria terra. A partire dalle scuole, si insegnava ai bambini e agli adulti ad ammirare la natura che li circondava, anche attraverso l’apertura un centro di educazione ambientale con mostre sugli animali e sulle piante. Le persone iniziarono a denunciare chi catturava le scimmie e chi le deteneva in casa; gli agricoltori si convinsero a firmare per concedere le proprie terre alla conservazione dei leontocebi. Un grande lavoro che ha portato alla sopravvivenza di questa specie e che ci insegna che l’educazione e la conoscenza del nostro mondo sono le basi per proteggerlo.
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