Grazie alle indagini della procura newyorchese, il Met ha restituito reperti vari e una testa della dea Atena. 19 milioni di euro il valore totale.
Perché non possiamo smettere di parlare dei calchi in gesso di Pompei
I calchi in gesso degli abitanti di Pompei non sono una novità, però ci fanno capire meglio il passato. Ecco perché sono importanti.
Lo scorso 21 novembre, il Parco archeologico di Pompei ha rilasciato un comunicato stampa dal titolo “L’impronta del dolore“. La notizia: gli archeologi che lavorano nel sito sono riusciti a realizzare i calchi in gesso di due delle vittime dell’eruzione del Vesuvio avvenuta nell’anno 79 d.C. Si tratta di due uomini in fuga, uno più o meno ventenne e uno con un’età compresa fra i 30 e i 40 anni. Schiavo e padrone? Forse. In assenza di fonti scritte non lo sapremo probabilmente mai. I loro scheletri sono stati trovati a circa 700 metri a nord ovest di Pompei, nell’area del portico coperto della grande villa suburbana in località Civita Giuliana, dove già nel 2017 è stato possibile realizzare i calchi di tre cavalli bardati.
L’eruzione del 79 d.C. in breve
Tutti abbiamo sentito parlare dell’eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C. Ma come avvenne? Ce ne parla Plinio il Giovane, politico Romano che in quei giorni si trovava a Capo Miseno a far visita famiglia. L’eruzione si verificò in due fasi: nella prima, meno violenta, ci furono una serie di esplosioni e fuoriuscite di cenere e lapilli; nella seconda – quella che sorprese anche i due fuggiaschi di Civita Giuliana – una colonna di gas, ceneri e pomici si abbatté sulla città molto velocemente, distruggendo tutto. Lo shock termico provocò la morte istantanea degli abitanti, poi subito ricoperti dai lapilli. Una volta solidificate le ceneri, e decomposti i corpi, quel che è rimasto a Pompei sono i “vuoti” (per dirla brutalmente, i “negativi”) degli abitanti in fuga all’interno degli strati di magma che hanno ricoperto la città.
I calchi in gesso delle vittime di Pompei e le polemiche
I calchi in gesso delle vittime dell’eruzione del 79 d.C. sono una novità? No. Nel corso di oltre un secolo e mezzo ne sono stati ottenuti circa mille. Molti calchi sono danneggiati o andati distrutti nel corso della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, tanti sono ancora visibili nel parco e – non senza una buona dose di morbosità e passione per il macabro – ci aiutano a capire l’entità della tragedia vissuta dalla città campana.
La tecnica usata è stata perfezionata da Giuseppe Fiorelli nella seconda metà dell’Ottocento e prevede l’inserimento di gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi. Solidificandosi, il gesso lascia l’impronta del defunto. Oggi, in realtà, quella che si utilizza è un’evoluzione della tecnica di Fiorelli, perché prima della colatura gli archeologi hanno prelevato campioni ossei dagli scheletri dei due fuggiaschi per future analisi ed eseguito scansioni laser dei vuoti lasciati dai corpi.
Data la notizia, non sono mancate le polemiche da parte di chi ha ritenuto il titolo del comunicato troppo sensazionalistico, lamentando il fatto che si trattasse di una non-notizia, che non si ponesse adeguatamente l’accento sul lavoro degli archeologi. I calchi vengono utilizzati per fare “fiction” e alimentare la morbosità dei visitatori, e non si ricorda che sono invece strumenti scientifici a tutti gli effetti, che ci permettono di comprendere alcuni importanti dettagli sulla vita romana del tempo, come i tessuti con cui erano vestiti gli antichi, per esempio.
Qualcuno in questi giorni si è anche domandato: perché l’archeologia italiana sembra iniziare e finire con Pompei? Perché sembra non esserci nient’altro, quando invece la nostra penisola è davvero ricchissima di siti archeologici e storie interessantissime che riguardano tutte le epoche, dal Paleolitico a oggi?
I calchi in gesso di Pompei ci ricordano le nostre fragilità
Banalmente, perché ci racconta qualcosa in cui possiamo riconoscerci. Perché è una tragedia facile da rievocare, in cui è facile immedesimarsi. Ci parla di una natura imprevedibile che sorprende esseri umani inermi. Ci fa ricordare quanto siamo ancora piccoli e indifesi di fronte alla furia degli agenti atmosferici e delle catastrofi naturali. Ci ricorda altri eventi distruttivi dei nostri giorni, che ogni anno costano la vita a migliaia di persone. Ci fa porre delle domande sulla nostra fragilità.
I calchi dei corpi delle vittime la rendono visibile e attuale. Rompono prepotentemente la distanza col passato e lo rendono vero, tangibile. Non un fatto da leggere sui libri di storia. Non un (bel) racconto tratto dalle ricerche degli archeologi. Ma un fatto vivo. E quindi semplice da comunicare. Quelle dei fuggiaschi sono storie comuni facili da comprendere. Anche se non si conosce la storia romana di I secolo d. C. nel dettaglio.
Un pretesto per fare divulgazione
Questo è il valore delle scoperte, anche piccole, di Pompei. Il fatto di rendere il passato presente, andando a colpire l’immaginario delle persone. Se proprio vogliamo avanzare una critica, dovremmo dire che il potenziale di questa suggestione, dell’empatia che proviamo per la tragedia di una città (anzi, di quattro. Perché nell’eruzione del 79 d.C. sono scomparse anche Ercolano, Stabia e Oplontis), resta spesso inutilizzato per fare vera divulgazione sui media. In effetti, il comunicato stampa va oltre i calchi e racconta – però in archeologhese – le indagini avviate nell’area della villa a partire da gennaio 2020 per comprenderne meglio la struttura architettonica.
Insomma, ci commuoviamo di fronte ai calchi, ma non approfondiamo il lavoro degli archeologi.
Ebbene, facciamolo. Facciamo entrambe le cose. Usiamo i calchi per raccontare le storie dei fuggiaschi che non ce l’hanno fatta e allo stesso tempo anche i progressi scientifici della ricerca. Ma non togliamo potere all’immaginario. Perché è il motore della curiosità. E stimolare la curiosità nei visitatori è il primo passo per veicolare anche le informazioni “noiose” che riguardano il metodo di scavo o l’avanzamento delle ricerche nel portico coperto e nelle stanze di una villa romana fuori Pompei.
In fondo: se l’uso dei calchi diventa funzionale al racconto un po’ più approfondito del passato, ben venga.
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