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Secondo un’indagine di Greenpeace delle enormi miniere a cielo aperto stanno mettendo a repentaglio un’importante area protetta in Qinghai.
Il quadro sarebbe idilliaco: distese di prati verdi costellati da fiori di montagna, valli lussureggianti in cui pascolano le pecore e vette aspre e selvagge. Guardando meglio, però, si scorgono enormi crateri neri e grigi, sembrano i morsi di un grande parassita che mettono a nudo la montagna, umiliandola e ferendola.
Siamo in Qinghai, provincia della Repubblica Popolare Cinese, che, letteralmente, significa “mare verde” in mongolo. Una società di carbone cinese ha realizzato una serie di miniere a cielo aperto illegali nei prati alpini sull’altopiano occidentale del Qinghai, i lavori potrebbero potenzialmente mettere in pericolo uno dei più grandi fiumi del Paese.
La denuncia arriva da Greenpeace Asia che ha pubblicato i risultati dell’indagine. Secondo l’associazione ambientalista le quattro miniere a cielo aperto sul bacino del Muli, gestite dalla società privata Kingho Group, potrebbero mettere in serio pericolo il fragile ecosistema dell’altopiano del Qinghai, tra la Cina e il Tibet. Due delle quattro miniere sono illegali in quanto si sovrappongono con una zona naturale protetta, mentre le altre due si preparano ad espandersi nella zona.
«La legge cinese sulle riserve naturali dice che non si dovrebbe effettuare nessuna operazione su larga scala all’interno di parchi nazionali – ha dichiarato Li Shuo, attivista di Greenpeace – questa è una chiara violazione». Dalla catena montuosa del Quilian, che sorge nell’area protetta, nasce un importante affluente del fiume Giallo, il secondo corso d’acqua più lungo della Cina.
«Le miniere rappresentano un cancro che cresce in un ecosistema alpino altrimenti intatto – si legge nel rapporto di Greenpeace – l’estrazione del carbone nel corso degli anni ha distrutto i prati alpini che collegano i ghiacciai sulle montagne e l’altopiano, tagliando il canale per la pioggia e l’acqua di fusione per alimentare i fiumi. La capacità di trattenere l’acqua del paesaggio è quindi notevolmente compromessa». All’origine del problema troviamo la forte dipendenza della Cina dal carbone, che rappresenta circa il 70 per cento dell’energia del Paese. Il governo centrale sta spostando le attività minerarie e industriali nelle zone scarsamente popolate della nazione.
Gli ambientalisti lanciano l’allarme sostenendo che le autorità non hanno sviluppato un quadro normativo adeguato per valutare l’impatto ambientale dei nuovi progetti, con il conseguente rischio della scarsità d’acqua e della desertificazione. Il ministero per l’Ambiente ha ribattuto che la Cina si sta adoperando per emanciparsi dal carbone entro il 2020, dando la priorità al gas naturale.
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