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I compensi dei top manager delle società quotate sulla Borsa italiana non hanno l’approvazione del 5,1 per cento dei soci. Il dato emerge dallo studio contenuto nel Quaderno di Finanza n. 76 di Consob, intitolato “Il meccanismo del say-on-pay in un contesto di proprietà concentrata. Il caso dell’Italia”. Per la prima volta in Italia un paper ha analizzato l’applicazione
I compensi dei top manager delle società quotate sulla Borsa italiana non hanno l’approvazione del 5,1 per cento dei soci. Il dato emerge dallo studio contenuto nel Quaderno di Finanza n. 76 di Consob, intitolato “Il meccanismo del say-on-pay in un contesto di proprietà concentrata. Il caso dell’Italia”.
Per la prima volta in Italia un paper ha analizzato l’applicazione del meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione nelle società quotate, introdotto alla fine del 2010 ed entrato in vigore con le assemblee annuali dei soci che si sono svolte nel 2012. Il voto sulla policy (si noti bene sulla politica, non sull’ammontare dei compensi) è obbligatorio ma non vincolante, se non per le banche e le assicurazioni.
Delle 251 società quotate, sono state prese in considerazione quelle con una documentazione di dati completa e cioè 226. All’interno di queste 226 società, diciassette hanno registrato un dissenso superiore al 20 per cento. Dallo studio emerge anche una tendenza tutta peculiare dell’Italia. Nel mirino non finiscono i compensi che stridono con le performance, come avviene all’estero, bensì il livello in sé di remunerazione del top management. Sotto tiro anche la mancanza di trasparenza nelle politiche di remunerazione, soprattutto per quel che riguarda la parte di remunerazione variabile.
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