Il mondo sta perdendo i coralli, il 14 per cento è scomparso solo nell’ultimo decennio

Il più grande studio mai realizzato sui coralli mostra risultati preoccupanti. Ma ci dice cosa fare per salvare questo prezioso ecosistema.

Le barriere coralline ospitano circa il 25 per cento di tutte le specie marine e forniscono circa 2,7 mila miliardi di dollari all’anno in beni e servizi, dei quali 36 miliardi di dollari sono solo di turismo. Proteggono e assicurano il benessere delle coste e forniscono un sostegno alimentare ed economico a centinaia di migliaia di persone. Tuttavia, stanno scomparendo: nel decennio tra il 2009 e il 2018 il mondo ha perso il 14 per cento di questo ecosistema. Sebbene i coralli occupino lo 0,2 per cento del mare, la loro scomparsa causerebbe danni catastrofici.

coralli pieni di colori
Barriera corallina © Francesco Ungaro/Unsplash

La più grande analisi sui coralli

Un ambiente così ricco di vita e al tempo stesso così fragile. Il dato che emerge dal report “Status of coral reefs of the world: 2020” è molto preoccupante, abbiamo perso negli ultimi dieci anni circa 12mila chilometri quadrati di corallo, l’equivalente di più di tutta la barriera corallina australiana. L’enorme lavoro dietro a questo studio, che dura da circa quarant’anni, ha visto impegnati trecento scienziati che hanno raccolto quasi due milioni di dati, osservando coralli in più di 12mila siti sparsi per 73 paesi. Le analisi si sono basate sulla copertura dei coralli vivi, che indica lo stato di salute della barriera, ma anche sulla presenza delle alghe, un indicatore molto significativo dello stress dei coralli. È stato osservato che dal 2010 al 2019 la presenza delle alghe è aumentata di circa il venti per certo.

Le barriere coralline di tutto il mondo sono sottoposte ad uno stress costante causato principalmente dai cambiamenti climatici. Il riscaldamento delle acque è uno dei fattori che provoca lo sbiancamento dei coralli, il quale porta inesorabilmente alla loro scomparsa. Già nel 1998, circa l’otto per cento delle barriere coralline, era stato distrutto dal primo grande evento di sbiancamento, ciononostante gran parte dei coralli, negli anni successivi, era riuscita a riformarsi.

Perché lo sbiancamento porta alla morte dei coralli

Facciamo un passo indietro. Il corallo è formato dagli scheletri calcarei dei polipi, i quali formano delle colonie gigantesche di cloni identici che secernono scheletri dalle forme e dimensioni molto varie. I polipi dei coralli non sono colorati ma, il loro colore, viene fornito dagli organismi simbionti che vivono all’interno delle loro cellule, le zooxantelle. Queste ultime, sono degli organismi fotosintetici che forniscono ai polipi i nutrimenti di cui hanno bisogno, che da soli non riescono a procurarsi. Tuttavia, quando la temperatura dell’acqua è troppo calda, le zooxantelle subiscono dei danni al sistema fotosintetico, che smette di funzionare. Inoltre, producono delle molecole reattive di ossigeno che danneggiano le cellule del polipo, il quale per difesa, le espelle. Si assiste così alla perdita di colore, lo sbiancamento, dei coralli. Non avendo più il sostegno nutrizionale di cui hanno bisogno, i coralli muoiono.

una speranza per i coralli
L’ultima speranza per i coralli © Francesco Ungaro/ Unsplash

Non mancano segnali di speranza

Nel report è stato infatti evidenziato che sebbene nell’ultimo decennio l’intervallo tra gli eventi di sbiancamenti non sia stato sufficiente a permettere ai coralli di riprendersi e riformarsi, nel 2019 è stato osservato un recupero della copertura della barriera corallina del due per cento. Ciò indica che le barriere coralline sono ancora resistenti, quindi bisogna, da subito, attuare delle strategie per ridurre le pressioni su questo ecosistema. Così, forse, nei prossimi decenni potranno tornare fiorenti come prima del 1998.

Le persone dipendono fortemente dalle barriere coralline di tutto il mondo. Dobbiamo concentrare e aumentare gli sforzi per la loro salvaguardia. Dobbiamo mantenerle funzionanti affinché possano continuare ad essere sostentamento per le comunità.

David Obura, autore dello studio

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