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Damien Hirst a Venezia con la mostra Treasures from the wreck of the unbelievable a Punta della Dogana e Palazzo Grassi fino al 3 dicembre. Il ritorno di uno degli artisti contemporanei più controversi.
Il ritorno trionfale, controverso, esagerato di Damien Hirst, l’artista vivente più celebre al mondo – o se non altro uno dei più quotati. Ha scelto proprio Venezia per esporre Treasures from the wreck of the unbelievable (tesori dal relitto dell’incredibile): dieci anni di lavoro culminati in una mostra monumentale che occupa Punta della Dogana e Palazzo Grassi, le sedi veneziane della collezione del magnate francese François Pinault, con centinaia di sculture in bronzo, cristallo e marmo di Carrara impreziosite con pietre, ori, giade e malachite. Fino al 3 dicembre.
Si narra che quello esposto è un tesoro vecchio 2mila anni ritrovato in fondo all’oceano Indiano nel 2008. Appartenente a un liberto e collezionista originario di Antiochia vissuto tra la metà del Primo e l’inizio del Secondo secolo dopo Cristo, Cif Amotan II, era destinato per il tempio dedicato al dio Sole che aveva fatto costruire. Ma a causa del naufragio della nave che lo trasportava, l’Apistos (“incredibile” in greco) il tesoro andò perduto. Fino a ora.
Hirst vuole a tutti i costi strabiliare e provocare con la sua arte, frutto non solo della sua visionarietà ma anche della sua capacità di sfruttare l’attenzione mediatica e le risorse economiche esorbitanti a sua disposizione. Ricordiamo che il teschio tempestato di diamanti, l’opera For the love of God (per amore di Dio) è stata venduto per 100 milioni di dollari nel 2007. Infatti è stato l’artista stesso a finanziare il “ritrovamento” del tesoro di Cif Amotan II, che al termine della mostra veneziana verrà messo in vendita; secondo le sue dichiarazioni la spesa si è aggirata intorno alle 50 milioni di sterline (57 milioni di euro).
Nato a Bristol, in Inghilterra nel 1965, cresciuto a Leeds e ora residente tra Londra e Gloucester, gli anni Ottanta hanno segnato l’ascesa di Hirst. Le sue installazioni, le sculture, i dipinti e i disegni esplorano la relazione tra arte, bellezza, religione, scienza, vita e morte. Nel 1995 è stato vincitore del Turner Prize, il premio del museo d’arte moderna Tate e il più prestigioso della Gran Bretagna. L’opera di Hirst più discussa in assoluto è The physical impossibility of death in the mind of someone living (l’impossibilità fisica della morte nella mente di chi è in vita), uno squalo (vero) lungo cinque metri in una soluzione di formaldeide. Prevedibilmente, l’utilizzo di cadaveri di animali in questa e altre opere gli ha dato una brutta fama tra gli animalisti.
Ma sono proprio polemiche come questa che tengono a galla il mito di Hirst. Perché a prescindere da gusti e pregiudizi non si può negare che sia un artista innovativo che ha rivoluzionato i confini dell’arte (per alcuni nel bene, per altri nel male). Negli ultimi dieci anni la sua produzione artistica è comunque calata e si è dedicato alle attività di uomo d’affari, gallerista, collezionista e venditore d’arte – infatti in molti l’accusano di essere un “venduto”. Adesso però sappiamo che nel corso di questa pausa creativa stava preparando la mastodontica personale veneziana che si estende su 5mila metri quadri.
La riuscita della mostra a cura di Elena Geuna è attribuibile anche alla sua cornice, Venezia. Le suggestioni create dal passato della città ex potenza navale e gli scorci sui canali che offrono le ampie vetrate di Punta della Dogana, il suo antico cuore commerciale, e Palazzo Grassi, l’edificio di una storica famiglia di mercanti, rendono verosimile l’immersione nella storia dell’Apistos. Foto e filmati eterei del rinvenimento del tesoro dimostrano la sua veridicità e le sculture sono adornate con coralli e creature marine per creare l’impressione che siano state dimenticate in fondo al mare per millenni.
“La mostra è incentrata su quello che crediamo. Io credo nella storia del collezionista vissuto 2mila anni fa. Se chiudo gli occhi lo vedo, non mi si può dire che non sia esistito.”
La pluralità di soggetti raffigurati è da capogiro. Da Buddha a Baloo, da Medusa a Mickey Mouse, la mostra è un viaggio psichedelico tra le icone che hanno segnato la storia dell’umanità. Le opere non portano fisicamente la firma di Hirst ma la sua impronta è visibile nell’attenzione maniacale ai dettagli, la lavorazione minuziosa delle sculture, soprattutto le concrezioni marine che le ricoprono offuscando i soggetti “originali”.
In un collage di riferimenti culturali da diversi luoghi ed epoche, le opere sono cariche di ironia. Il faraone non assomiglia a Pharrell Williams? Le dee greche non hanno le proporzioni della Barbie? Dietro a una statua c’è la scritta “Made in China”, un’altra chiamata The collector (il collezionista) è un autoritratto di Hirst. L’opera più incredibile è una statua alta 18 metri che riempie il cortile di Palazzo Grassi in cui è raffigurata la creatura di The ghost of a flea, quadro di William Blake. Questo cocktail iconografico sfocia anche, inevitabilmente, nel pacchiano. Ma se non altro le placchette esplicative a fianco a ogni opera ci permettono di imparare qualcosa perché ogni figura, per quanto assurda, viene spiegata e contestualizzata: che cosa rappresenta, e da quale epoca e cultura proviene.
“Le opere non rientrano in alcuna categoria accademica ed estetica convenzionale”, questo il commento di Pinault, il collezionista che ha finanziato la mostra. Ed è per questo che vale la pena visitarla. Ci si potrebbe sentire frustrati, addirittura presi in giro a causa degli eccessi di Hirst. Ma se non ci facciamo distrarre dall’effetto stroboscopico degli elementi visivi in mostra, l’artista ci invita a riflettere su un tema fondamentale nella nostra epoca, quella dei social e delle fake news, cioè come distinguiamo la verità dalla finzione.
La mostra inizia a Punta delle Dogana (Dorsoduro 2) e prosegue a Palazzo Grassi (Campo San Samuele 3231). Termina il 3 dicembre ed è aperta tutti i giorni eccetto il martedì dalle 10 alle 19, ultimo ingresso alle 18. Il prezzo intero è di 18 euro.
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