Diritti umani

La lunga strada per correre la maratona. Le donne che hanno fatto la storia

In cinquant’anni siamo passati dai medici che pensavano che le donne non fossero fisicamente in grado di correre la maratona, che fosse addirittura pericoloso per la loro salute, ad atlete che stabiliscono record inarrivabili anche per i colleghi maschi. È davvero ispiratrice e a tratti inaudita la storia delle prime donne che hanno deciso di infrangere le convenzioni per correre i loro

In cinquant’anni siamo passati dai medici che pensavano che le donne non fossero fisicamente in grado di correre la maratona, che fosse addirittura pericoloso per la loro salute, ad atlete che stabiliscono record inarrivabili anche per i colleghi maschi.

È davvero ispiratrice e a tratti inaudita la storia delle prime donne che hanno deciso di infrangere le convenzioni per correre i loro sacrosanti 42 km.

Le prime a farlo hanno dovuto ricorrere a travestimenti, trucchi e sotterfugi, o perfino resistere a violenze e placcaggi da parte degli uomini.

Julia Chase-Brand

Nipote di due capi delle suffragette – le attiviste del movimento di emancipazione femminile per ottenere il diritto di voto per le donne (“suffragio” vuol dire “voto”) – Julia Chase-Brand cresce tra le vaste distese dei boschi della fattoria familiare in Connecticut. In America negli anni Sessanta si riteneva che le donne non potessero affrontare corse più lunghe di un chilometro, a rischio di danni ai loro organi riproduttivi. Alcuni medici avevano addirittura avvertito che la corsa poteva far sì che l’utero cadesse. Nel 1960, a 18 anni, Julia si registra per la Manchester Road Race nel Connecticut, ma i funzionari le dicono che sarebbe stata bandita a vita anche solo per aver fatto domanda.

Dopo un anno di vane proteste, ritorna alla carica, con il rossetto e il suo abito da ginnastica del liceo, e ce la fa.

Parte da un quartiere successivo rispetto ai concorrenti maschi per evitare i controlli dei funzionari. Batte dieci uomini e viene accolta da un’ovazione al traguardo, anche se il suo tempo non viene ufficialmente registrato.

“Finire quella gara è stato un momento decisivo per me – ha anni dopo raccontato la dottoressa Chase-Brand, nel frattempo diventata una celebre zoologa e psichiatra infantile – se ho potuto gestire quella pressione, mi son resa conto che sarei potuta andare avanti e vivere la mia vita come volevo. Potevo fare qualunque cosa”.

Nel 1960 Julia Chase-Brand si iscrive alla Manchester Road Race in Connecticut, in 1960, ma i funzionari minacciano di bandirla a vita. Nel 1961 corre senza permesso, e per evitare la sanzione dichiara che non avrebbe mai più partecipato a competizioni “per soli uomini”. Julia finisce la gara in 33 minuti e 40 secondi, al 128esimo posto, davanti a 10 uomini.
Nel 1960 Julia Chase-Brand si iscrive alla Manchester Road Race in Connecticut e i funzionari minacciano di bandirla a vita. Nel 1961 corre senza permesso, e per evitare la sanzione dichiara che non avrebbe mai più partecipato a competizioni “per soli uomini”. Julia finisce la gara in 33 minuti e 40 secondi, al 128esimo posto, davanti a dieci uomini.

Bobbi Gibb

Roberta Gibb non sa nemmeno che la maratona di Boston è chiusa alle donne quando presenta la domanda, nel 1966. Essendosi allenata per anni (con le scarpe da infermiera della Croce Rossa, dimentichiamoci le Nike fluo, le scarpe da corsa per le donne non esistevano nemmeno), riesce a coprire 40 miglia in un giorno con facilità. Ma il direttore della corsa ovviamente rifiuta la sua richiesta adducendo il fatto, che si riteneva acclarato, che le donne non fossero fisiologicamente capaci di correre la distanza della maratona.

La mattina della maratona Bobbi Gibb si veste con pantaloni e felpa di suo fratello, si nasconde in un cespuglio accanto alla linea di partenza e salta in corsa subito dopo la partenza. Senza pettorale. Alcuni podisti maschi cominciano a incoraggiarla quando capiscono che stavano correndo con una donna, il passaparola si diffonde e quando attraversa la linea di traguardo (tre ore, 21 minuti e 40 secondi) viene accolta dagli applausi della stampa e del governatore del Massachusetts, che le stringe la mano congratulandosi con lei.

Bobbi è la prima donna a terminare ufficialmente una vera maratona (riuscendoci anche nei due anni successivi) anche se nemmeno allora il tempo viene registrato. Infatti, ci sono voluti trent’anni affinché l’associazione Boston Athletic riconoscesse il suo arrivo assegnandole una medaglia.

Per timore di essere riconosciuta e cacciata prima ancora dell’inizio dai giudici di gara si nascose fra i cespugli e si confuse poi fra i 540 iscritti (uomini) senza dare nell’occhio. E qui accadde una cosa bellissima: i concorrenti se ne accorsero nonostante indossasse una maglia che copriva le sue forme e capirono subito da che parte dovevano stare. “Non permetteremo a nessuno di cacciarti. La strada è di tutti”. “Furono molto protettivi con me – ricorda Bobbi – Gli faceva piacere che una donna corresse. Mi incoraggiarono molto”. Nella vita, ha lavorato come ricercatrice alla University of California San Diego. Ora ha 75 anni e corre ancora.
Quando gli altri 540 iscritti (uomini) si accorgono che tra loro c’è una donna, accade una cosa bellissima: cominciano a parteggiare per lei. “Non permetteremo a nessuno di cacciarti. La strada è di tutti”. “Furono molto protettivi con me – ricorda Bobbi – Gli faceva piacere che una donna corresse. Mi incoraggiarono molto”. Nella vita, ha lavorato come ricercatrice alla University of California San Diego. Ora ha 75 anni e corre ancora.

Kathrine Switzer

Mentre Bobbi Gibb corre clandestinamente la maratona di Boston del 1967, un’altra donna sta tentando di aprir la pista come candidata ufficiale. Kathrine Switzer si registra per la gara come un neutro “K. V. Switzer”, indossa abiti abbondanti e quando si presenta a ritirare il pettorale gli organizzatori pensano che stia effettuando il ritiro a nome di un familiare o amico maschio. Inizia la gara col suo pettorale… Prima di essere notata dai funzionari della corsa.

Il direttore di gara, Jock Semple, furioso, la afferra per la felpa e cerca di trascinarla fuori dalla strada, urlando “Và all’inferno fuori dalla mia corsa”, ma Kathrine Switzer lo scansa e riesce a completare la maratona, mentre i giornali in tutto il mondo pubblicano le foto della famosa schermaglia.

Successivamente Kathrine va anche a vincere la maratona di New York nel 1974. Dedica la sua vita (ora è settantenne) a incoraggiare le donne a seguire le sue orme con 261 Fearless, ritornando spesso a correre lì, a Boston, teatro di quella simbolica vittoria. Vi è stata anche di recente: lunedì 17 aprile 2017 ha concluso la maratona in 4:44’31”, classificandosi 22.601ª e 9.860ª donna.

“Quando vado alla maratona di Boston, adesso ho le spalle bagnate – racconta – perché le altre donne mi abbracciano piangendo. Piangono di gioia perché la corsa ha cambiato loro la vita”.

Il 17 aprile 2017, in occasione del cinquantenario della sua impresa, ha preso parte ancora una volta alla gara di Boston, indossando lo stesso numero di pettorale, il 261, della sua prima partecipazione. Gli organizzatori, in suo onore, hanno deciso di ritirare il pettorale 261 dalle future competizioni.
Il 17 aprile 2017, in occasione del cinquantenario della sua impresa, Kathrine Switzer ha preso parte ancora una volta alla gara di Boston, indossando lo stesso numero di pettorale, il 261, della sua prima partecipazione. Gli organizzatori, in suo onore, hanno deciso di ritirare il pettorale 261 dalle future competizioni.

Leggi anche: Quando i 42km sono tutti dietro e hai solo voglia di guardare il cielo. Maratona di Berlino 3:10:31

Nina Kuscsik

1971, 19 settembre, New York. Beth Bonner, con 2:55’22” è la prima vincitrice donna della maratona di New York ed è anche la prima atleta ad abbattere il muro delle tre ore in compagnia della seconda classificata, Nina Kuscsik.

Arrivata seconda in quella gara, Nina Kuscsik si rifà poco dopo con la vittoria a New York, bissata l’anno dopo. Ma è l’edizione 1972 a marcare il suo impegno contro la discriminazione. “La Aau cominciò ad acconsentire agli organizzatori di Boston e New York di accettare le donne – racconta poi nel 2012 in occasione della sua entrata nella New York Road Runners Hall of Fame – ma ci dissero che dovevamo partire in un punto diverso, e dieci minuti prima degli uomini. Noi sentimmo che era discriminatorio, così quando la nostra pistola sparò, ci sedemmo in segno di protesta finché non partirono anche gli uomini”.

Il maggiore primato sportivo è quello d’essere stata la prima donna a vincere ufficialmente la storica maratona di Boston nel 1972. Non contenta del monumentale successo, è stata anche la prima donna a vincere la corsa in salita sull’Empire State Building nel 1991. Prima di scoprire l’amore per la corsa, aveva già vinto titoli di campionessa di New York per lo speed skating, il rollerskating e il ciclismo.

Nina Kuscsik l’1 ottobre 1972 alla maratona di New York, vicino all’arrivo a Central Park. Alla partenza aveva inscenato, insieme alle sole altre cinque donne iscritte quell’anno, un sit-in di protesta davanti alla linea di partenza, contro la regola imposta dalla federazione dell’atletica Aau secondo cui le donne dovevano partire dieci minuti prima, per evitare i supposti rischi di salute e moralità del “competere in mezzo agli uomini”.
Nina Kuscsik l’1 ottobre 1972 alla maratona di New York, vicino all’arrivo a Central Park. Alla partenza aveva inscenato, insieme alle sole altre cinque donne iscritte quell’anno, un sit-in di protesta davanti alla linea di partenza, contro la regola imposta dalla federazione dell’atletica Aau secondo cui le donne dovevano partire dieci minuti prima, per evitare i supposti rischi di salute e moralità del “competere in mezzo agli uomini”.

Joan Benoit Samuelson

È difficile crederlo, ma la maratona femminile non è stata un evento sportivo alle Olimpiadi fino al 1984, a Los Angeles. È la runner americana Joan Benoit Samuelson a vincere quella storica, prima medaglia d’oro. Ma, come altre podiste femminili del tempo, anche Samuelson era stata ostracizzata, prima. “Quando ho iniziato a correre, ero così imbarazzata che, quando le auto mi passavano accanto, camminavo. Fingevo di guardare i fiori!”.

Nonostante numerosi infortuni e interventi chirurgici, va a vincere anche lei la maratona di Boston nel 1979. Nel 1983 ottiene un record mondiale che dura per 11 anni. Poi vince sei volte la 7,1 miglia della Falmouth Road Race. Oggi è un’ambasciatrice per la corsa delle donne e partecipa ogni anno alla maratona femminile di Nike.

Alle Olimpiadi del 1984 Joan Benoit Samuelson vince il primo oro olimpico per la maratona femminile con il tempo di 2:24:52, con più di un minuto sulle sue rivali nonostante il forte caldo, lo smog e un tasso di umidità molto alto, che provocarono la drammatica defaillance dell'atleta svizzera Gabriela Andersen Scheiss. Dietro di lei si classificarono Grete Waitz, Rosa Mota (che quattro anni dopo avrebbe vinto a sua volta l'oro olimpico) e Ingrid Kristiansen, le migliori atlete del periodo. Negli anni successivi una serie di infortuni le ha impedito di continuare a competere ad alti livelli. Ha scritto alcuni libri ed ha aperto una clinica specializzata in problemi legati alle attività sportive.
Alle Olimpiadi del 1984 Joan Benoit Samuelson vince il primo oro olimpico per la maratona femminile con il tempo di 2:24:52, con più di un minuto sulle sue rivali nonostante il forte caldo, lo smog e un tasso di umidità molto alto, che provocarono la drammatica defaillance dell’atleta svizzera Gabriela Andersen Scheiss. Dietro di lei si classificarono Grete Waitz, Rosa Mota (che quattro anni dopo avrebbe vinto a sua volta l’oro olimpico) e Ingrid Kristiansen, le migliori atlete del periodo. Negli anni successivi una serie di infortuni le impediscono di continuare a competere ad alti livelli. Ha scritto alcuni libri e ha aperto una clinica specializzata in problemi legati alle attività sportive.

Grete Waitz

La norvegese Grete Waitz diventa la prima donna a compiere una maratona in meno di due ore e mezza. Vince ben nove maratone di New York – più di chiunque altro nella storia e nel 1983, il 7 agosto, a Helsinki, diviene la prima campionessa del mondo di maratona. Ma nonostante il suo leggendario talento, ha dovuto lottare per convincere i suoi genitori che c’era un futuro per le atlete femminili. Infatti, agli inizi della sua carriera, nessuno si fidava a farle fare la professionista e dunque lavora come insegnante di educazione fisica.

Nel 1978 suo marito Jack la persuade a correre la maratona di New York, nonostante prima non avesse mai fatto più della mezza maratona. Il direttore della corsa pensa di farle fare solo l’assistente di gara, cioè i podisti che in maratona aiutano i runner a raggiungere il traguardo. Invece non solo va a vincere, ma stabilisce nientepopodimenoché un nuovo record mondiale. “Quando ho tagliato il traguardo ero furiosa con Jack perché tutto il mio intero corpo urlava di dolore. Ma una volta che la rabbia se n’è andata, il dolore ridotto e la sensazione della vittoria riemersa dentro, ho capito che avevo messo una pietra miliare nella mia carriera”, ha detto in seguito. Forse, non solo nella sua.

Quando ancora la maratona femminile non era quasi praticabile, all'inizio degli anni Settanta, Grete Waitz si cimentava in pista, su 1500 e 3000m. Ai Giochi olimpici del 1972 partecipa, a soli 18 anni, ai 1500 metri. Quando cominciano a disputarsi le grandi maratone, passa a correre su strada e inanella una serie di vittorie a New York. Qui, a Helsinki, la sua vittoria ai mondiali del 1983. È scomparsa nel 2011 all'età di 57 anni.
Quando ancora la maratona femminile non era quasi praticabile, all’inizio degli anni Settanta, Grete Waitz si cimentava in pista, su 1500 e 3000m. Ai Giochi olimpici del 1972 partecipa, a soli 18 anni, ai 1500 metri. Quando cominciano a disputarsi le grandi maratone, passa a correre su strada e inanella una serie di vittorie a New York. Qui, a Helsinki, la sua vittoria ai mondiali del 1983. È scomparsa nel 2011 all’età di 57 anni.

Leggi anche: Marina Graziani “La corsa, la mia cura dell’anima”

Derartu Tulu

È sia la prima donna etiope che la prima donna africana a vincere una medaglia d’oro olimpica. Derartu Tulu ha vinto i 10.000 metri donne alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 e ha reclamato un altro oro otto anni dopo – unica donna ad aver vinto due medaglie d’oro nella storia dell’evento.

Dopo aver avuto due figli riprende a correre e va a vincere maratone a Londra, Tokyo e New York. Ma probabilmente, oltre ai record sportivi, l’atleta etiope rimarrà nei libri di storia per una gara, in particolare.

Era il 2009 e si accinge a partecipare alla maratona di New York senza molte speranze. Alla partenza ha 37 anni ed è da otto che non ne vince una; solo qualche mese prima inoltre aveva rischiato di morire di parto e aveva pensato di ritirarsi dall’attività agonistica. In più, c’è lì accanto anche la detentrice del record del mondo, la maratoneta Paula Radcliffe.

La gara sembra difficilmente scalabile per l’etiope che però a sorpresa al 35esimo km riesce a recuperare terreno e a raggiungere il gruppetto di testa. In quel momento accade l’imprevisto. La favoritissima Radcliffe inizia a lamentare un forte dolore alla gamba sinistra che la costringe a rallentare. Con la più forte avversaria in difficoltà Derartu Tulu, invece di cercare di mettere più spazio possibile fra sé e la sua antagonista, si ferma e aspetta la Radcliffe per sorreggerla e incoraggiarla, dicendole “Andiamo, possiamo farcela!”. L’inglese per un po’ riesce a tenere il ritmo delle prime, rallenta una seconda volta e la Derartu rallenta nuovamente anche lei, e cerca di sostenerla, invano. Perché cede. La cosa incredibile è che, seppur ormai in clamoroso ritardo dalle prime, Derarto Tuli sfodera uno dei suoi sprint fenomenali che in pista le hanno permesso tanti anni prima di mettersi al collo due medaglie d’oro olimpiche, raggiunge la testa della corsa e taglia clamorosamente il traguardo al primo posto con il tempo di 2 ore, 28 minuti e 52 secondi diventando la prima donna etiope a vincere la maratona di New York.

Chi conosce Derartu Tulu sa che è stata una grandissima atleta nel mezzofondo e nel fondo, oltre a essere stata la prima africana nera a vincere un oro alle olimpiadi. Etiope, nata nel 1972, è stata protagonista di molti successi in carriera, l’ultimo dei quali è stato forse il più emozionante.
Chi conosce Derartu Tulu sa che è stata una grandissima atleta nel mezzofondo e nel fondo, oltre a essere stata la prima africana nera a vincere un oro alle olimpiadi. Etiope, nata nel 1972, è stata protagonista di molti successi in carriera, l’ultimo dei quali è stato forse il più emozionante.

Paula Radcliffe

L’attuale detentrice del record mondiale nella maratona mista è una dei maggiori atleti britannici di sempre. Paula Radcliffe fa la storia il 13 aprile del 2003. Doveva ancora compiere i 30 anni, e segna un risultato nella maratona di Londra – due ore, 15 minuti e 25 secondi – inarrivabile, a cui nessuna donna s’è nemmeno avvicinata fino al 2017, ma nemmeno nessun uomo. Solo quest’anno la keniana Mary Keitany, allenata dall’italiano Gabriele Nicola, ha infranto il record nella maratona femminile, vincendo la medaglia d’oro a Londra con il tempo di 2 ore, 17 minuti e un secondo. Batte di 41″ il precedente record di Radcliffe, la quale però mantiene il record sulla distanza mista perché “usò” gli uomini come lepri.

Paula Radcliffe poi vince tre volte la maratona di Londra e New York e ha una bacheca stracolma di riconoscimenti europei, mondiali e del Commonwealth.

Capelli biondissimi, andatura anomala e riconoscibile per quella testa ciondolante che assecondava ogni passo di corsa e soprattutto un primato mondiale, quel 2:15:25 stabilito sulla distanza più dura, la maratona: Paula Radcliffe è tutto questo. Nata a Davenham, nella contea del Cheshire in Inghilterra, Paula è stata un punto di riferimento per diverse generazioni di atlete e solo a 41 anni, nel 2015, ha scelto di dire basta alla lotta col cronometro. A Londra ha gareggiato per l'ultima volta sulla lunga distanza. Partita in mezzo al gruppo e non insieme alle atlete d'elite e con il pettorale "Paula" invece che con un numero, ha corso la sua maratona più lenta, salutando le persone che facevano il tifo per lei lungo il percorso e intrattenendosi con gli atleti che l'hanno accompagnata in questo lungo addio. Divertente anche un siparietto sul Tower Bridge, dove l'ex eptatleta Denise Lewis le corre dietro per intervistarla per la Bbc e non riesce a tenere il suo passo.
Capelli biondissimi, andatura anomala e riconoscibile per quella testa ciondolante che assecondava ogni passo di corsa, Paula è stata un punto di riferimento per diverse generazioni di atlete e solo a 41 anni, nel 2015, ha scelto di dire basta alla lotta col cronometro. A Londra ha gareggiato per l’ultima volta sulla lunga distanza. Partita in mezzo al gruppo, non insieme alle atlete d’elite, e con il pettorale “Paula” invece che col numero, ha corso la sua maratona più lenta, salutando le persone che facevano il tifo per lei lungo il percorso e intrattenendosi con gli atleti che l’hanno accompagnata in questo lungo congedo. Divertente anche un siparietto sul Tower Bridge, dove l’ex eptatleta Denise Lewis le corre dietro per intervistarla per la Bbc e non riesce a tenere il suo passo.

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