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Il dramma delle tribù della valle dell’Omo diventa arte: l’installazione multisensoriale al Mudec di Milano
Al Mudec di Milano un progetto multisensoriale di Studio Azzurro racconta la vita delle popolazioni indigene della valle dell’Omo in Africa, che rischiano di perdere la loro casa e la loro identità strettamente legata a un territorio minacciato dalle attività economiche.
“Se a parlare non resta che il Fiume” è l’istallazione artistica in mostra al Mudec di Milano fino al 31 dicembre 2018 che unisce il lavoro di ricerca e testimonianza della fotografa ed educatrice americana Jane Baldwin, l’idea artistica di Studio Azzurro e la conoscenza in merito a questi territori e popoli di Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni. Al centro di tutto c’è l’Omo, il fiume africano che attraversando l’Etiopia e il Kenya sino al bacino del lago Turkana garantiva la sussistenza dei popoli che vi abitano. Uomini e donne da dieci anni minacciati dalla costruzione di una diga che ha mutato l’ambiente, il fiume e dunque le loro vite. Per il visitatore un’esperienza sensoriale costruita su pochi semplici passi che riescono però a lasciare il segno.
“Se a parlare non resta che il Fiume”, il racconto della vita di un popolo sulle sponde
È una mostra diversa “Se a parlare non resta che il Fiume”. Il fiume, l’Omo, non è scritto in maiuscolo a caso: è un protagonista, forse il protagonista principale di tutto il progetto. È da lui infatti che dipendono le vite degli abitanti di questa zona dell’Africa e, nella stanza buia al piano terra del Museo delle culture di Milano, è rappresentato grazie a un lungo nastro serpeggiante di creta rossa. Questa superficie di materia stesa a mano e lasciata essiccare, si screpola e si sbriciola in numerosi frammenti. Ciò che il visitatore deve o può fare, è sceglierne un pezzo, staccarlo dal suo supporto di juta e, nelle pareti perimetrali della stanza, lasciarlo cadere dentro i bracciali a spirale che riproducono proprio quelli indossati dalle indigene africane di questa terra. I bracciali sono in realtà sensori che attivano i video grazie ai quali ascoltiamo le testimonianze degli abitanti della valle dell’Omo e del bacino di Turkana, raccolte da Jane Baldwin in circa 10 anni di viaggi in Africa. Ne vediamo anche i volti e così, ascoltarle, ha ancora più senso.
Kara ci porta all’interno della cultura africana, delle sue credenze, per noi lontane e assurde. Qui si crede ancora al malocchio: un’entità maligna che può impossessarsi di te e renderti impossibile la vita. Kara è certa che le abbiano fatto il malocchio e che per questo la sua bimba non voglia più il suo seno.
Turkana invece racconta dell’importanza del lago che lei stessa definisce “padre dei miei figli”: “… tutto il nostro cibo viene dal lago, i pesci stanno scomparendo e la gente ha sempre più fame. Le capre e le mucche hanno cominciato a morire perché sulla sponda del lago non cresce più l’erba.. il lago è il fiume della vita…”.
Hamar vorrebbe essere una donna libera ma è invece succube degli uomini di casa o del marito che è stata costretta a sposare. Lavora duramente: raccoglie la legna, cucina, accudisce i bambini, coltiva il sorgo mentre l’uomo non fa nulla. Questa è la società in cui “la donna è piccola e l’uomo è grande”, dice.
Quando il racconto termina, nella stanza sembra di trovarsi sulle sponde del fiume, lo si sente scorrere, si vede sugli schermi. Non a caso il titolo “Se a parlare non resta che il fiume”. Siamo solo noi a poter far riprendere le voci del popolo, proprio attraverso ciò che rimane del fiume, un greto spesso arido. Soprattutto voci di donne: il progetto rende infatti omaggio alle donne della regione – culla dell’umanità – e rivela i profondi legami esistenti tra l’uomo e l’ambiente, tra noi e gli altri popoli.
Cosa accade oggi nella Valle dell’Omo in Africa
Arte, storia, cultura e ambiente, tutto in un’unica mostra, tutto in una sola stanza: “Se a parlare non resta che il fiume” parte dal desiderio, dalla necessità di denunciare ciò che accade in una zona dell’Africa. Siamo nel bacino dell’Omo, fiume che scorre per circa 760 chilometri in Etiopia sino a sfociare nel lago Turkana, in Kenya. Un ecosistema unico, di straordinaria complessità e diversità: di antichissima formazione, questa regione rappresenta probabilmente uno dei primi paesaggi al mondo a essere stati abitati dall’uomo moderno, come attestano numerosi ritrovamenti archeologici.
Un territorio che grazie alla sua ricchezza ha garantito sussistenza alle popolazioni indigene e ne ha anche attratte di lontane e diverse. Una delle zone più ricche al mondo in termini di diversità biologica e culturale tanto che il Comitato del patrimonio mondiale (Unesco) ha nominato la Bassa valle dell’Omo e il Parco nazionale del lago Turkana patrimonio dell’umanità rispettivamente nel 1980 e nel 1997.
Nell’ultimo decennio circa però la sopravvivenza di queste zone è stata minacciata da una grave crisi ambientale e umanitaria, generata dalla costruzione di un immenso impianto idroelettrico, chiamato Gibe III, a circa 150 chilometri a sud della sorgente dell’Omo, e dai piani di sviluppo agro-industriale associati. La diga ha alterato i suoi cicli idrologici naturali e l’entità e il ritmo delle esondazioni stagionali da cui dipendono gli ecosistemi dell’intero bacino dell’Omo e del Lago Turkana, che riceve il 90% circa delle sue acque dall’Omo. Così a oggi sono circa 500.000 le persone, prima largamente autosufficienti, che si trovano in difficoltà o sono costrette ad abbandonare le proprie zone.
In molti hanno denunciato la violenza nei confronti di chi quei territori li ha sempre vissuti: tra questi l’organizzazione non governativa Survival international e Jane Baldwin che fra il 2005 e il 2014 si è recata nella valle dell’Omo ogni anno per documentare soprattutto la vita delle donne africane. Da qui il progetto “Se a parlare non resta che il fiume”, volto a sensibilizzare chi crede che quelli dell’Africa siano problemi lontani, che non ci riguardano. Ma è bene sapere che è la società italiana Salini Impregilo che ha iniziato nel 2006 a costruire l’opera, ultimata nel 2016. E il governo sta ora progettando di costruire Gibe IV e Give V. E il pericolo cresce.
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