Cosa è stato detto e cosa no su Gaza al Festival di Sanremo

Un evento mediatico come il Festival di Sanremo inevitabilmente riflette i fatti del mondo. Ma sono bastati pochi accenni alla catastrofe umanitaria di Gaza per destare scalpore.

Pippo Baudo che nel 1984 invita sul palco i metalmeccanici dell’Italsider; Michail Gorbaciov, ultimo presidente dell’Unione sovietica, ospite con la moglie dell’edizione 1999; Jovanotti che nel 2000 chiede – rappando – di cancellare il debito dei paesi del sud del mondo, per poi essere convocato dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema; Tananai che nel 2023 conquista il quinto posto con Tango, una ballad su una coppia divisa dalla guerra in Ucraina. Nelle settantaquattro edizioni del Festival di Sanremo, in un modo o nell’altro i fatti del mondo sono riusciti a conquistarsi un piccolo spazio sul palco del teatro Ariston. Uno spazio senza dubbio non esaustivo, stretto tra i tempi televisivi, il bagliore dei riflettori e le inevitabili semplificazioni imposte dall’evento nazionalpopolare per eccellenza. Ma pur sempre uno spazio.

Nel 2024, mentre gli italiani si fermavano e regalavano ascolti record all’ultimo Festival di Sanremo condotto da Amadeus, nella Striscia di Gaza era in corso una catastrofe umanitaria senza precedenti. Ma pochi, pochissimi, hanno avuto la lucidità e il coraggio di parlarne apertamente. Scatenando un’immediata reazione di chiusura da parte dei vertici Rai.

Dargen D’Amico e Ghali chiedono il cessate il fuoco sul palco dell’Ariston

Due, su trenta, i brani dal contenuto esplicitamente legato all’attualità: Onda alta di Dargen D’Amico e Casa mia di Ghali. Non stupisce, dunque, che siano stati proprio loro gli unici a sfruttare i pochi secondi post-esibizione per unirsi all’appello per il cessate il fuoco. “Dedico questa canzone alla mia nipotina Marta che è a Malta a studiare. Ma non tutti sono così fortunati nel Mediterraneo: ci sono bambini sotto le bombe, senza acqua e senza cibo. Il nostro silenzio è corresponsabilità: la storia e Dio non accettano scena muta. Cessate il fuoco”, ha esordito Dargen D’Amico già nella prima serata.

Ancora più diretto Ghali, apprezzatissimo in gara, come dimostra il suo quarto posto nella classifica finale. “Stop al genocidio!” sono le parole con cui si è congedato durante la finale del Festival di Sanremo. A suggerirgliele all’orecchio, l’alieno che era con lui sul palco: l’escamotage ha colto di sorpresa, rendendo la sua dichiarazione ancora più incisiva. Sempre nella serata finale, Fiorella Mannoia si è congedata tra gli applausi con un “Restiamo umani!”, frase che ha voluto ripetere anche il giorno successivo a Domenica in. La citazione è di Vittorio Arrigoni, attivista e reporter pacifista, rapito e ucciso proprio a Gaza nel 2011.

“E per cosa lo devo usare, questo palco?”

Una presa di posizione che Alon Bar, rappresentante di Tel Aviv in Italia, descrive come “vergognosa”, perché significa sfruttare il palco di Sanremo per “diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile”.

“E per cosa lo devo usare?”, replica lo stesso Ghali, durante la trasmissione Domenica in. “Io sono un musicista ancora prima di essere su questo palco. Ho sempre parlato di questo, da quando son bambino […]. Non è dal 7 ottobre che succede, questa cosa va avanti già da un po’”. L’artista trentenne continua: “La gente ha sempre più paura, ha paura di dire ‘stop alla guerra’, ‘stop al genocidio’, le persone sentono che vanno a perdere qualcosa se dicono ‘viva la pace’, è assurdo. Non deve succedere questo. Poi l’Italia è un paese che porta valori totalmente diversi”. Parole tutt’altro che casuali per un milanese di seconda generazione che, nella serata delle cover, è salito sul palco cantando in arabo per poi concludere l’esibizione con L’italiano di Toto Cotugno.

Ci sono dei bambini di mezzo, ieri ero un bambino che sognava e ora sono qua. Quei bambini che stanno morendo in questo momento, chissà quante star, chissà quanti dottori, chissà quanti insegnanti, geni sono in mezzo. Perché?

Ghali

Il comunicato della Rai contro gli appelli per la pace

Prese di posizione che evidentemente sono inaccettabili anche per la televisione pubblica italiana, o almeno per l’amministratore delegato Roberto Sergio, nominato dal governo di Giorgia Meloni. “Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano, e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla comunità ebraica è sentita e convinta”. Così recita il comunicato che la conduttrice Mara Venier ha ricevuto e letto in diretta. “Parole che ovviamente condividiamo tutti”, ha aggiunto. Una chiosa che non è passata inosservata, come dimostrano le infuocate polemiche che hanno monopolizzato i social network nelle ore successive.

Durante la trasmissione televisiva Porta a Porta andata in onda nella serata di martedì 13 febbraio, il giornalista Bruno Vespa ha chiesto conto delle critiche di Alon Bar direttamente ad Amadeus, conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo. “Rispetto le decisioni di tutti, ma non sono assolutamente d’accordo con questa affermazione, nella maniera più totale. Il festival di Sanremo non ha mai promosso l’odio, ha sempre parlato di inclusione, di libertà: i cantanti che sono saliti sul palco hanno chiesto la fine della guerra, hanno chiesto la pace, richiedere la pace vuol dire seminare odio? Esattamente il contrario”, ha risposto. “Mai mi sarei sognato, ma neanche i cantanti, di portare odio, anzi noi portiamo esattamente l’opposto, i ragazzi che vengono in gara lanciano messaggi e appelli di pace, di libertà, di libertà di idee, di pensiero, di uguaglianza di pelle, di valori. Mi sento di dire che nella storia di Sanremo, senza sembrare presuntuoso, in questi anni c’è stato un grande senso di inclusione che va assolutamente rispettato e mai cambiato, sennò torniamo indietro.”

Ma perché parlare di ciò che succede nella Striscia di Gaza, e perché farlo proprio a Sanremo? Perché la libertà di espressione è un diritto costituzionale. E imporre dall’alto temi “graditi” e “non graditi” non risponde certo a quel pluralismo che dovrebbe essere, almeno sulla carta, uno dei “principi fondamentali del sistema radiotelevisivo”. Già a maggio 2023, con le dimissioni dell’allora amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e il “nuovo storytelling” promesso dal suo successore Roberto Sergio, lo European centre for press and media freedom (Ecpmf), la Federazione europea dei giornalisti (Efj), l’International press institute (Ipi) e la Obc Transeuropa (Obcd) avevano espresso “una crescente preoccupazione riguardo le pressioni a cui è soggetta l’indipendenza dell’emittente”.

Il comunicato letto in diretta televisiva, di fatto, concretizza il timore che lo stesso Ghali aveva espresso poco prima. Cioè che difendere la pace sia percepito come un estremismo. Eppure, l’appello al cessate il fuoco è lo stesso per cui da mesi si spendono le maggiori organizzazioni per i diritti umani, arrivando fino al segretario generale dell’Onu António Guterres.

Perché ha senso parlare di Gaza, anche al Festival di Sanremo

La libertà di espressione è connaturata all’idea stessa di arte. Anzi, in un simile contesto è ancora più preziosa, perché la cultura da sempre è anche avanguardia, è capacità di cogliere i segnali del presente e immaginare un futuro diverso. Lo spettacolo, anche nelle dimensioni trasversali e nazionalpopolari del Festival di Sanremo, può quindi diventare il canale attraverso cui veicolare realtà difficili da accettare, talvolta persino da immaginare. Come il fatto che, su tutte le persone al mondo a rischio carestia, l’80 per cento viva a Gaza. Sono dati ufficiali, diffusi dalle Nazioni Unite con un comunicato a gennaio, cento giorni dopo l’inizio dell’“assedio totale” imposto da Israele a seguito degli attacchi scagliati da Hamas il 7 ottobre.

Per via del blocco dell’ingresso di beni di prima necessità, tra cui cibo, acqua, medicinali e carburante, “attualmente ogni singola persona a Gaza soffre la fame”, scrivono gli esperti delle Nazioni Unite. “Tutti i bambini sotto i cinque anni (335mila) sono ad alto rischio di grave malnutrizione”. Pur di sfamarsi, denuncia l’organizzazione non governativa ActionAid, c’è chi si riduce a mangiare l’erba. Ogni abitante ha a disposizione circa 1,5-2 litri d’acqua al giorno per soddisfare i propri bisogni primari; ma è acqua non potabile. A partire dal 7 ottobre più di 27mila persone palestinesi sono state uccise e altre 66mila sono state ferite, fa sapere il ministero della Sanità della Striscia di Gaza, controllato da Hamas. Circa 1.200, secondo le autorità di Israele, le vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre.

Chiudere gli occhi di fronte a tutto questo, derubricandolo come un tema scomodo, divisivo e pertanto inadatto all’evento mediatico dell’anno, significa sprecare un’occasione: l’occasione di riflettere sul mondo attraverso gli occhi, le voci e le menti degli artisti. E richiama alla mente la tetra previsione della celebre serie tv Boris. “Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte”.

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