Gli ultimi nomadi dell’India

Il futuro dei nomadi dell’India, i Fakirani Jat e i Rabari, è incerto. Tra tensioni geopolitiche e un clima che cambia, il patrimonio antropologico delle popolazioni nomadi è a rischio.

Quando raggiungo il campo in cui erano accampati per la notte, trovo solo le donne e i membri più piccoli della famiglia. Nessuna traccia degli uomini, così come delle pecore o della mandria di cammelli da cui queste persone dipendono per il loro sostentamento. Nur Bhaie mi spiega che, durante il giorno, gli uomini sono via con le mandrie fin da molto presto. Dovrei però essere in grado di intercettare alcuni di loro mentre passano nei paraggi, lungo una strada asfaltata che, a perdita d’occhio, passa rettilinea al limitare del campo in cui ci troviamo. Nurmanmad Meru è uno dei membri più anziani e rispettati della famiglia a cui mi sono unito.

I capelli grigi, un po’ arruffati, pettinati su un lato, risaltano sulla carnagione scura, da cui emerge uno sguardo fiero ma allo stesso tempo pacifico. 55 anni, migliaia di chilometri nelle gambe, appartiene ai Fakirani Jat, una comunità di pastori nomadi di fede islamica, che fin da tempi remoti percorrono il nordovest indiano attraversando steppe semi aride e boscaglie, insieme alle loro mandrie di cammelli, alla ricerca di pascoli. L’espressione “Bhaie” è usata in gran parte dell’India per rivolgersi a un uomo in modo amichevole e fraterno, ma anche come titolo per uomini rispettati all’interno di una comunità, specialmente nei contesti musulmani o tradizionali. È una vita in costante movimento, strettamente connessa all’andamento delle stagioni e ad un clima da sempre difficile. Per i prossimi giorni sarà la mia guida. È tarda mattinata, il termometro supera ampiamente i 35 gradi e tutt’attorno ci sono campi il cui frutto è già stato raccolto da qualche tempo, alternati a una bassa e spinosa vegetazione. Sono venuto nel Kutch, il distretto più vasto e più occidentale dello stato del Gujarat, per incontrare alcune delle ultime popolazioni nomadi dell’India.

Attraverso la condivisione della loro vita quotidiana desidero scoprire quanto profondamente la loro esistenza sia legata agli effetti dei cambiamenti climatici.

Nomadi india
I nomadi dell’India sono tribù pastorali © Andrea Ferro

Da dove veniamo realmente

Per quanto possa sorprendere, c’è stato un tempo in cui l’umanità era molto più incline a uno stile di vita nomade, piuttosto che ad uno stanziale, entro territori definiti e delimitati. In quel periodo neppur troppo remoto, i nostri antenati vivevano in un costante movimento di genti, che ha prodotto incontri tra culture geograficamente anche molto distanti tra loro, dai quali si è generato il mondo che conosciamo oggi. La sedentarietà è un fenomeno relativamente recente, iniziato circa 12mila anni fa, con l’agricoltura neolitica. Fino a quel momento i primi Homo sapiens si spostavano costantemente per cacciare, raccogliere, seguire le stagioni e le mandrie.

Successivamente, le grandi vie carovaniere dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente sono state percorse per secoli da popoli nomadi – la famosa Via della seta, ad esempio, fu a lungo mantenuta da popoli nomadi come gli uiguri, i kazaki, i bactriani e i mongoli. Erano queste le vene lungo le quali scorreva linfa vitale sotto forma di idee, religioni, tecnologie, spezie e culture, e sono molti gli imperi che nei secoli fiorirono da radici nomadi. Se il mondo che conosciamo si è plasmato a partire dal movimento, come siamo arrivati oggi a guardare con sospetto a chi – per scelta o perché costretto da circostanze avverse quali clima, conflitti o persecuzioni – si mette in cammino, assecondando un istinto primordiale della razza umana?

donne indiane nomadi
In genere sono le donne a occuparsi del reperimento e del trasporto dell’acqua per il resto della famiglia, mentre gli uomini sono occupati a pascolare i cammelli, da cui dipendono per il loro sostentamento © Andrea Ferro

Si stima che oggi circa il tre per cento della popolazione mondiale, attorno ai 200 milioni di persone, viva secondo tradizioni nomadi millenarie. L’etimologia della parola “nomade” deriva dall’indoeuropeo nomas, che significa “componente di una tribù pastorale errante” o “colui che si sposta in cerca di pascoli per le proprie mandrie”. Assistiamo oggi ad una fase in cui l’alterazione dell’equilibrio tra uomo e ambiente si è fatta estrema come mai prima, con effetti che si ripercuotono anche su quanti cercano di adattarsi e sopravvivere, preservando il loro stile di vita ancestrale, nonché il legame con l’ambiente da cui dipendono.

I nomadi dell’India sono parte di una ricca diversità umana da salvaguardare

In questo contesto di crescenti sfide alla loro esistenza, le ultime popolazioni nomadi dell’India costituiscono un inestimabile patrimonio antropologico e culturale, messo a repentaglio dal rarefarsi delle risorse naturali e dalla riduzione degli habitat. Del resto, “il nomadismo del ventunesimo secolo, come quello di tutti i millenni, resta ostaggio del clima”, come sintetizza perfettamente Gaia Vince nel libroIl secolo nomade”.

“Noi pastori tradizionali continuiamo a vagare, andiamo ovunque troviamo buoni pascoli per i cammelli. Questi animali sono la nostra unica fonte di sopravvivenza”, mi racconta Nur Bhaie, mentre sediamo all’ombra, scarsa ma decisiva, di un piccolo albero, al termine di una lunga marcia a quasi quaranta gradi, sotto al cocente sole del Gujarat.

Ma c’è un altro gruppo accomunato ai Jat dalle stesse sfide per l’adattamento a un clima che cambia. I Rabari portano con sé altrettanti secoli di nomadismo. Gli uomini sono facilmente riconoscibili per i loro tipici turbanti, di un bianco uguale alle loro vesti, e per i folti baffi a manubrio, mentre le donne sono vestite di lunghi abiti neri con veli sul capo, a differenza di quelle appartenenti ai Fakirani Jat che vestono tendenzialmente di rosso. Mentre i Jat sono tipicamente musulmani, i Rabari sono invece di fede induista, ma entrambi basano la propria esistenza sul pascolo dei cammelli della razza Karai. I cammelli Karai sono una razza indigena del Gujarat, e si distinguono per la capacità di nuotare per chilometri in acqua salmastra e di sopravvivere in ambienti salini mangiando piante di mangrovia, come l’Avicennia marina. Sono oggi considerati una razza a rischio a causa della perdita di habitat dovuta principalmente a bonifiche costiere, industrializzazione e cambiamento climatico.

Vita nomade e clima in mutamento

Anche se l’India è abituata a fare i conti con temperature altissime, il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1901. Un recente studio pubblicato dal Consiglio per l’energia, l’ambiente e l’acqua (Ceew), rivela che il 97 per cento dei distretti del Gujarat rientra in un indice di rischio per il caldo (Hri) “molto alto” o “alto”. Da ciò derivano fenomeni atmosferici sempre più estremi, come i monsoni divenuti sempre più irregolari e imprevedibili, con precipitazioni spesso ben oltre la media, o fuori periodo. Considerati i ritmi di vita fondati sui cicli naturali e sulle possibilità di pascolo, la prima a risentirne è la pianificazione delle migrazioni stagionali. I pastori nomadi devono quindi adattare le loro rotte, nonché anticipare o posticipare gli spostamenti. Nei periodi più caldi sono costretti a marce di molti chilometri, prima di poter incontrare terreni adatti ad accogliere i loro animali e fonti d’acqua, spostandosi anche con maggiore frequenza. Nei periodi monsonici, le piogge riducono tradizionalmente la frequenza e le distanze percorse, ma quando sono eccessive danneggiano i pascoli e i ripari temporanei, mentre repentine inondazioni causano la perdita di bestiame e vittime anche tra i nomadi.

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Uomini del popolo nomade Rabari chiacchierano e si divertono vicino a un falò © Andrea Ferro

Nomadismo e geopolitica: tensioni tra India e Pakistan e conseguenze sulle migrazioni stagionali 

Le vicende dei Fakirani Jat e dei Rabari da tempo si intrecciano inoltre con importanti questioni geopolitiche, oltre che climatiche. Entrambe le comunità hanno solcato per secoli rotte che stagionalmente oltrepassavano gli attuali confini tra India e Pakistan, due nazioni in conflitto sin dalla loro partizione, avvenuta nel 1947. Il 22 aprile 2025, un nuovo attacco terroristico nel Kashmir indiano compiuto da militanti legati a gruppi islamisti pakistani ha causato la morte di 26 civili, perlopiù turisti indù. Ciò ha portato a un riacutizzarsi delle tensioni tra i due Paesi, con una serie di schermaglie tra i due eserciti nei pressi del confine, fino alla nuova tregua siglata a inizio maggio. Il Gujarat, territorio di frontiera, è direttamente interessato da quanto avviene tra le due potenze nucleari asiatiche. Rotte millenarie risultano oggi interrotte o divenute troppo pericolose, e per molti nomadi i moderni confini rappresentano una cesura rispetto alla loro tradizione e alla loro eredità culturale. La loro vita errante, libera e quindi difficile da controllare, porta con sé un’ombra di sospetto agli occhi delle autorità, facendo emergere un’ulteriore criticità: la frammentazione territoriale.

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Un gruppo di donne di una famiglia del popolo nomade Fakirani Jat è in cammino con i propri cammelli per affrontare una dura giornata di viaggio sotto il sole alla ricerca del prossimo luogo adatto per il pascolo. Kutch, Gujarat, India © Andrea Ferro

Alla luce delle odierne difficoltà della vita nomade, chiedo a Nur Bhaie se abbia mai considerato abbandonare l’allevamento errante. “Desidero continuare a fare ciò che ho fatto per tutta la vita”, mi risponde, mentre dal suo viso non traspare alcun dubbio, ma piuttosto una serena determinazione.

Desidero vivere con la mia famiglia come ho fatto in tutti questi anni e guadagnarmi da vivere come ho fatto finora, finché avrò vita.

Nur Bhaie

Oggi le nuove generazioni sono sempre più attratte da una vita di tipo urbano, per molti versi meno libera, ma allo stesso tempo meno difficile, e all’interno del dibattito sulla crisi climatica non si concede ancora abbastanza peso all’assottigliarsi del capitale culturale umano. Le comunità nomadi del ventunesimo secolo rappresentano in questo senso un inestimabile patrimonio antropologico messo a repentaglio dalla crescente urbanizzazione, dalla frammentazione territoriale, da un clima sempre più estremo, dalla scarsità di risorse naturali o dai conflitti per l’accesso a risorse vitali, ma anche dalle conseguenze della voracità nei consumi, (caratteristica della) società di cui siamo parte.

L’incontro con i Fakirani Jat, con i Rabari, o con altre popolazioni che vivono al di là di imposizioni geografiche o sociali, può aiutare a porci domande importanti anche sul nostro modo di vivere e sul nostro futuro su questo Pianeta, a cominciare dal significato di modernità, e dal nostro rapporto con l’ambiente naturale.

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