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In Europa c’è una differenza del 16 per cento tra gli stipendi medi degli uomini e quelli delle donne. Un dato su cui possiamo lavorare, in tanti modi.
8 marzo, giornata internazionale per i diritti delle donne. L’occasione giusta per festeggiare le conquiste delle donne nel corso della storia, ma anche per riflettere su tutti i nodi ancora da risolvere. Uno dei più importanti e dibattuti è il gender pay gap, il divario salariale tra uomini e donne. Quello che la consigliera delle Nazioni Unite Anuradha Seth ha definito, senza mezzi termini, il più grande furto della storia.
A fornirci alcuni concetti di base è la versione più recente del “Report sull’uguaglianza tra uomini e donne nell’Unione Europea”, pubblicata nel 2017 dalla Commissione europea. Anche quando hanno successo negli studi, cosa che capita spesso, le donne finiscono per doversi accontentare di retribuzioni inferiori; i loro scatti di carriera sono meno frequenti; oppure, il loro percorso lavorativo subisce delle interruzioni. Di conseguenza, nel corso della loro vita guadagnano meno. Fattore che incide negativamente anche sull’ammontare della loro pensione.
Quali sono le ragioni con cui la Commissione europea spiega il gender pay gap? La prima, e la più intuitiva, sta nel fatto che una maggiore percentuale di donne lavori in settori meno retribuiti; e su questo fronte, dimostrano le ricerche, negli ultimi anni abbiamo fatto ben pochi passi avanti. Per giunta una quota consistente di donne privilegia contratti temporanei e part-time, spesso associati a una retribuzione oraria più bassa.
Nella maggior parte dei paesi – e questa è senza dubbio la cosa più grave – il gender pay gap si riscontra all’interno della stessa occupazione. Ciò significa che vengono a cadere le giustificazioni dovute al fatto che la professione in questione sia più o meno qualificata. In questi casi, spiega la Commissione europea, si può parlare di discriminazione a pieno titolo. Oppure, di aziende che assegnano bonus per premiare comportamenti più diffusi tra gli uomini (molte ore di straordinario, nessuna interruzione di carriera, disponibilità a trasferirsi).
Cominciamo col chiarire che le donne sono sempre più presenti nel mercato del lavoro. Come rivela l’Eurostat, nell’Unione europea il loro tasso di occupazione è arrivato alla fine del 2016 a 65,3 per cento, crescendo praticamente in parallelo rispetto a quello degli uomini, che è pari al 76,9 per cento.
Ma spesso accade che, proprio mentre l’occupazione femminile si avvicina a quella maschile, il gender pay gap si allarghi. La media europea, secondo i dati Eurostat più aggiornati, è pari al 16,2 per cento. Ma ci sono enormi differenze tra i paesi più virtuosi, come Romania (5,2 per cento), Lussemburgo (5,5 per cento) e Italia (5,3 per cento), e quelli più diseguali, in primis l’Estonia che supera il 25 per cento e la Germania col 21,5 per cento.
L’Italia, insomma, sembra cavarsela piuttosto bene, ma come sempre è necessario osservare i dati con grande attenzione prima di trarre conclusioni affrettate. Suddividendoli per fasce di età, infatti, si scopre che il gender pay gap si allarga per le lavoratrici più giovani, quelle sotto i 25 anni. Anzi, in questo caso raggiunge il 16 per cento, uno dei valori più alti del Vecchio Continente.
Il settore più disuguale in assoluto è quello finanziario e assicurativo, che vede oscillare il gender pay gap tra il 18 e il 30 per cento.
A partire da quest’anno il Regno Unito ha puntato tutto sulla trasparenza, obbligando le aziende con più di 250 dipendenti a rendere pubbliche le differenze retributive che applicano tra i dipendenti. Facendo una media tra le oltre 10mila imprese britanniche che hanno dovuto svelare questi dati, emerge un gender pay gap pari al 9,7 per cento. Ma emergono grosse differenze di caso in caso.
Per le grandi banche Goldman Sachs, Barclays e HSBC, ad esempio, la differenza tra la paga media oraria di un uomo e quella di una donna è pari rispettivamente al 36 per cento, al 43,5 per cento e al 29 per cento. Questo è dovuto soprattutto al fatto che ci siano poche donne tra le figure più pagate in assoluto (rispettivamente il 17 per cento, il 19 per cento e il 34 per cento).
Per le compagnie aeree EasyJet e Virgin Atlantic, la differenza retributiva media è pari rispettivamente al 45,5 per cento e al 27,2 per cento: entrambe promettono di assumere più donne tra i piloti, poiché attualmente la rappresentanza femminile si concentra sui ruoli meno qualificati.
Questi sono i dati, che ci riguardano anche molto da vicino. Ma come si fa a migliorare? I trattati europei già proibiscono esplicitamente qualsiasi discriminazione di genere nel trattamento economico: ma, evidentemente, questo non basta.
Secondo la Commissione bisogna cominciare da molto presto, addirittura dalla scuola, dove le statistiche testimoniano l’eccellenza femminile. Il primo passo è proprio quello di eliminare tutti gli stereotipi che finiscono per confinare quest’eccellenza su una ristretta cerchia di materie, spingendo le ragazze a mettersi alla prova con le scienze, la tecnologia, l’ingegneria e la matematica.
Passando al mondo del lavoro, alcuni stati come il Regno Unito hanno imposto la trasparenza. Altrove sembra avere avuto effetti positivi l’introduzione di un salario minimo legale (da non confondere col reddito di inclusione o di cittadinanza: in questo caso si tratta semplicemente di una paga oraria, giornaliera o mensile al di sotto della quale i datori di lavoro non possono scendere). Visto che l’impiego femminile risulta piuttosto alto nel settore pubblico, alzare gli stipendi (ad esempio quelli per gli insegnanti) potrebbe essere un grande passo avanti. Infine, conclude il report, entra il gioco il grande mondo del welfare, del sostegno alle famiglie e alla genitorialità, delle politiche per creare un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata.
Si può lavorare su tanti fronti, insomma, ma sempre tenendo bene a mente una costante: garantire l’equità non è un sacrificio, ma un concreto passo avanti. Non solo per le donne, ma per l’intero tessuto della società.
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