Emergency

Due cose che aveva capito Gino Strada

Non è la storia di una vita eccezionale, ma il racconto di una scelta. Intervista a Simonetta Gola, curatrice del libro Una persona alla volta di Gino Strada.

Il libro Una persona alla volta non è la biografia di Gino Strada. È il racconto di ciò che un chirurgo d’emergenza ha visto durante i suoi anni di carriera in giro per il mondo, in alcuni dei territori più martoriati dalle guerre. Ma non solo. Forse è soprattutto la storia di una scelta, quella di fare qualcosa concretamente ogni giorno attraverso il proprio mestiere e grazie alla propria coscienza. Abbiamo parlato di questo libro e di tutto ciò che racchiude in sé con Simonetta Gola, che ne è la curatrice, ma è soprattutto da tempo la responsabile comunicazione di Emergency e condivide dunque con suo marito Gino l’impegno civile e umanitario che quest’organizzazione difende.

Quando Gino stava lavorando al suo ultimo libro, l’Afghanistan si preparava a vivere nuovi giorni di dolore e conflitto….

Posted by EMERGENCY on Thursday, March 3, 2022

Simonetta Gola, come è nato Una persona alla volta?
Gino voleva scrivere un libro sull’abolizione della guerra già circa quattro anni fa. Cominciò a lavorarci, preparò una bozza che però non lo convinceva. Era troppo teorica e storica e lui era abituato a parlare di cose molto più concrete. Si sentiva poi inadeguato a parlare di un tema simile dopo Einstein [Albert Einstein e Sigmund Freud disquisirono a lungo sulla natura della guerra attraverso una fitta corrispondenza, su Perché la guerra edito da Bollati e Boringhieri la raccoglie, ndr]. Aveva però voglia di scrivere, erano vent’anni che non lo faceva e aveva senso mettere ordine tra i suoi pensieri. In realtà il libro avrebbe dovuto intitolarsi Due cose che ho capito dalla vita suggerito da Carlo Feltrinelli per focalizzare il suo lavoro sui due temi a lui più cari: la guerra, che non si deve fare, e il diritto alla salute. Quando si è finalmente convinto, circa un anno fa, dovevamo andare in vacanza e finirlo lì. Poi è morto e l’ho “chiuso” io.

Simonetta Gola
Simonetta Gola, Responsabile comunicazione Emergency, curatrice di “Una persona alla volta” di Gino Strada © Eleonora Stevani

Nel libro Gino Strada scrive che nel 2001, in Afghanistan, aveva capito di non essere pacifista ma di essere contro la guerra. Cosa intendeva?
Nel 2001 c’era stata l’aggressione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti al di fuori dalla legalità internazionale. Siamo al 7 ottobre 2001, poco dopo l’11 settembre. Il 12 settembre con una risoluzione, le Nazioni Unite affermarono che avrebbero affrontato le responsabilità dei paesi coinvolti ma nel frattempo gli Stati Uniti avevano già deciso che sarebbero entrati in guerra. C’erano state diverse manifestazioni per la pace, ma il Parlamento italiano votò per il 92 per cento l’entrata in guerra. Parte di chi votò a favore partecipò allo stesso tempo alle manifestazioni contro la guerra. Dunque, se chi si diceva pacifista, ammetteva comunque la guerra per qualche motivo, Gino, a scanso di ogni equivoco, ritenne indispensabile dichiararsi contro la guerra e non pacifista. La guerra ha mille giustificazioni. Ma sempre guerra è. Combattere per i diritti umani uccidendo persone, per lo più civili, non ha senso. È un artificio retorico.

Inevitabilmente le si chiedono continuamente le opinioni di Gino Strada, ma lei e suo marito la pensavate sempre allo stesso modo?
La penso alla stesso modo. Anche perché lavoro a Emergency da vent’anni. E ho deciso di farlo per motivazioni mie. Ma discutevamo molto. Ad esempio, quando lui parlava della questione nucleare come minaccia, io pensavo che fosse troppo esagerato e cercavo di smorzare un po’ i toni. Mi sembrava che per noi fosse impossibile pensare a un conflitto atomico. Certo Einstein lo faceva, ma ne aveva avuto esperienza 10 anni prima. Noi no. Gino invece continuava a dirmi che sì, era possibile. E aveva ragione. Per me era un rischio teorico ma non reale. Invece parliamo di guerra nucleare nel 2022.

Gino Strada e lei nella postfazione del libro, parlando del diritto alla salute, affrontate anche il tema della pandemia e di riflesso dello stato attuale della sanità pubblica italiana: emerge palesemente come da tempo il paziente sia stato considerato un cliente e non qualcuno da curare.
Esiste una carta delle Nazioni Unite sui diritti. Si dice che sono unici, indivisibili ma il diritto alla salute è prioritario, è il diritto dei diritti. Ha a che fare con la sopravvivenza. Gino era ossessionato da questo. Era stato in luoghi dove questo diritto non esisteva. Dove occorrevano 6 mesi di stipendio per curare un’appendicite. Lo preoccupava molto la tendenza sempre più accentuata a trasferire questo diritto – che noi abbiamo – al mercato. Lo facciamo senza renderci conto. Lui aveva lavorato a lungo negli Stati Uniti e sapeva bene cosa significasse avere un’assicurazione sanitaria o non averla, e averne una da ricchi o una da poveri. Per lui era inconcepibile che la questione della salute fosse vissuta come individuale e non come un tema collettivo. Nessuno manifesta per la salute, mai: lo si fa per il lavoro, per la scuola.

Noi abbiamo un sistema sanitario molto buono, specie se paragonato a quello degli Stati Uniti, non ci troviamo esclusi da prestazioni come per esempio la chemioterapia, ma rinunciamo statisticamente a cure dentistiche che possono essere considerate meno importanti o abbiamo liste d’attesa molto lunghe. Comunque lo smantellamento del pubblico non avviene dall’oggi al domani, ma un pezzo alla volta, quasi a non farcene rendere conto. Ma accade lo stesso. Questa retorica del privato come una scelta in più per il paziente-cliente ha portato di fatto alla privatizzazione di una parte della sanità e di conseguenza alla mancanza di personale, alla precarietà degli stessi, a contratti pedestri. Era preoccupato che ciò che aveva visto in giro per il mondo, a lungo andare, potesse avvenire anche qui, cioè che le classi più povere fossero escluse dalle cure.

Perché dovremmo leggere Una persona alla volta?
Penso che sia stato importante parlare di queste cause, perché sono ancora aperte. Gino le ha raccontate perché sono il risultato di un’esperienza. Ma principalmente c’è il tema della scelta: non arrivi a cambiare il mondo con una sola scelta risolutiva ma con tante piccole scelte. Gino non si è trovato così impegnato da subito contro la guerra, ma ha fatto delle scelte professionali e ne ha aggiunta una dopo l’altra così da arrivare a ciò che ha fatto. Ognuno ha una responsabilità, con se stesso e nei confronti della collettività. Tutti possiamo fare qualcosa. Certo, Gino ha avuto una vita eccezionale, aveva delle abilità, ma è fondamentale avere la consapevolezza che ognuno di noi non deve per forza subito fare una cosa grandiosa ma può agire nel piccolo quotidianamente secondo le sue possibilità.

Emergency in questo ne è la prova: ha cominciato con dei medici che mandava a lavorare in luoghi di guerra e con persone che la sostenevano per quanto potevano. Le singole persone pur non avendo esperienza diretta, hanno contribuito a far crescere l’intervento umanitario e la consapevolezza su alcuni temi. La campagna mine è un progetto che Gino citava sempre: in quel caso Emergency è andata contro interessi economici molto grossi che coinvolgevano un nome importante come quello della Fiat, ma la mobilitazione popolare ha portato comunque alla legge contro le mine antipersona. Non so se adesso potrebbe accadere.

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