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La coscienza dell’unità nella filosofia classica come invito a ritrovare lo spirito originale della ricerca del tutto.
Non c’è quindi a di strano, se la sapienza non appare
utile né vantaggiosa, poiché non diciamo che essa
è utile, ma che è buona, né è giusto
desiderarla per causa di altro, ma per se stessa. Noi infatti ci
rechiamo ad Olimpia in vista dello spettacolo stesso, anche se da
esso non debba derivare niente altro – poiché lo spettacolo
stesso vale più di molto denaro -, e stiamo a guardare le
rappresentazioni dionisiache non per ricevere qualche cosa da parte
degli attori, ma anzi pagandoli, e preferiremmo molte altri
spettacoli a molto denaro. Allo stesso modo anche la speculazione
sull’universo deve essere stimata più di tutte le cose che
sono considerate utili. Non è certamente giusto, infatti,
viaggiare con gran fatica allo scopo di vedere uomini che imitano
donne e servi, o combattono e corrono, e non ritenere doveroso
speculare, senza spesa, sulla natura degli esseri e sulla
verità.
Aristotele, “Protrettico”
Lo splendido passo aristotelico riprodotto sopra evidenzia in
modo esemplare il concetto greco classico, soprattutto di matrice
platonico-aristotelica, della ricerca disinteressata del vero,
intesa come sguardo dell’anima sull’intero dell’essere, cioè
sulla totalità delle
cose.
Aristotele parla, infatti, di “speculazione sull’universo”, intesa
come un “osservare il cielo”, ovvero un aprirsi fecondo e gravido
di ricadute esistenziali sul senso che collega le cose tra loro,
che è poi “lo scopo in vista del quale la natura e Dio ci
hanno generati”.
In un mondo in cui l’individuo è diventato semplice
funzionario della tecnica, e dove il sapere è declinato solo
e unicamente nei termini delle grammatiche tecnologiche
(utilità, produttività, efficienza, sapere
specialistico, fredda abilità meccanica ), il rinvio alla
contemplazione
greca come disinteressata – e non utilitaristica! – forma di
conoscenza appare quanto mai opportuno.
In primo luogo, perché la ricerca del tutto implica la
pazienza della meditazione analitica, quanto mai urgente per l’uomo
d’oggi, travolto dalla frenesia del produrre e, quindi, incapace di
articolare in modo sistematico e, appunto, paziente forme di sapere
non meramente specialistiche; in secondo luogo, perché
l’apertura al
tutto dell’anima meditante conclude ad una sintesi
ultimativa: la capacità di ricondurre quel tutto su cui
esercitiamo la nostra intelligenza alla sua Origine, cioè al
Principio generatore dell’uomo, del cosmo e del senso che li lega
in modo indissolubile.
In definitiva, la contemplazione del tutto è contemplazione,
a vari livelli, del divino, un concetto, questo, che uno dei nostri
storici della filosofia antica più importanti, Giovanni
Reale, fissa in termini inequivocabili: “Di conseguenza, non
può stupire il fatto che Marco Aurelio e Plotino, pur
così abissalmente distanti fra loro, possano scrivere,
concordemente, che il filosofo: “[…] deve guardare al tutto”.
Insomma: dalle origini alla fine i Greci hanno considerato la
filosofia come il tentativo di comprendere tutte le cose,
riportandole al loro fondamento ultimo, ossia come il tentativo di
misurarsi con l'”intero”.
Pertanto la seguente affermazione platonica può davvero
considerarsi come il suggello di questa concezione: “Chi è
capace di vedere l’intero è filosofo, chi no, no””.
Ritornare ai
Greci significa, dunque, reinterrogarsi
sull’essenziale, sui significati di fondo del nostro stare al
mondo, sui vissuti e gli “agiti” che da sempre ci abitano come
tensioni insopprimibili all’Assoluto, come rabbiosa fame di cose
ultime, totalizzanti, che, sia pure lentamente, la filosofia e la
poesia stanno risvegliando nelle nostre assopite coscienze.
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