Nel 2023 le installazioni di energie rinnovabili hanno superato del 50 per cento quelle dell’anno precedente. Un record, ma bisogna fare ancora di più.
Con l’ultima revisione del Pnrr, i fondi stanziati per le Cer passano da 2,2 miliardi a poco meno di 800 milioni: preoccupazione tra gli addetti ai lavori.
Nei giorni scorso il governo italiano ha festeggiato l’approvazione, da parte della Commissione, di una nuova revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato dal mega fondo di quasi 200 miliardi euro (solo per l’Italia) pensato per sostenere la ripresa dei paesi europei dopo la pandemia del 2020-2021. Buona notizia? Non proprio, perché all’interno di questa modifica c’è una pesante rimodulazione al ribasso dei fondi del Pnr destinati alle Comunità energetiche rinnovabili (Cer) – passati da 2,2 miliardi a 795,5 milioni di euro, una riduzione del 64 per cento – che rappresenta uno dei più significativi ridimensionamenti delle politiche energetiche degli ultimi mesi. Una scelta che il Governo difende come “operazione di responsabilità”, ma che il mondo dell’energia diffusa considera un passo indietro in un momento cruciale per la transizione ecologica.
Il taglio è stato annunciato al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase), con la motivazione ufficiale di puntare sulla necessità di riallineare il budget agli effettivi fabbisogni progettuali, evitando il rischio di perdere risorse europee. Il ministro Gilberto Pichetto Fratin ha assicurato che la riduzione non comprometterà il raggiungimento dei target sulle rinnovabili né lo sviluppo delle comunità energetiche rinnovabili, definendo la scelta “prudenziale”. Una posizione che, però, non ha convinto chi lavora sul territorio. Comuni, imprese e associazioni hanno appreso la notizia con sorpresa. Molti avevano già avviato le procedure tecniche e finanziarie basandosi sulla dotazione originaria del Pnrr, considerata essenziale per far decollare le comunità energetiche soprattutto nei piccoli centri.
Il dato più emblematico è quello del Gestore dei servizi energetici (Gse): al 23 novembre 2025 le richieste di accesso ai fondi avevano già raggiunto 864,6 milioni di euro, superando di fatto la nuova disponibilità. Significa che una parte consistente dei progetti rischia ora di restare senza copertura, con ripercussioni sui cantieri e sulla crescita delle Cer, spesso indicate come uno dei pilastri della transizione energetica “dal basso”.
Il settore ha reagito duramente. Legambiente e altre associazioni ambientaliste hanno definito il taglio una “doccia fredda” (o al massimo calda ma grazie a gas o petrolio) per migliaia di soggetti che, da mesi, attendono chiarezza sulle regole e sui tempi di approvazione delle domande. Molti operatori sottolineano che la riduzione dei fondi arriva proprio a ridosso della scadenza per le richieste al Gse in un contesto già segnato da ritardi, incertezze interpretative e istruttorie ancora lente.
Ma più in generale questa rimodulazione rischia di indebolire la fiducia verso un modello – quello delle comunità energetiche – che stava iniziando a costruire dinamiche partecipative e di autoconsumo condiviso in tutto il Paese: ad oggi, secondo i dati pubblicati dallo stesso Gse e aggiornati al 31 maggio 2025, sono 421 le comunità energetiche presenti su tutto il territorio nazionale. Il totale della potenza installata è di 43mila kW (43 MW). Una scelta considerata pericolosa, perché le comunità energetiche restano uno strumento fondamentale nella strategia di decarbonizzazione: permettono di produrre energia rinnovabile, ridurre i costi per famiglie e imprese, e creare valore sociale direttamente nei territori. Ma la riduzione del 64 per cento delle risorse Pnrr rischia ora di rallentarne la diffusione proprio mentre l’Italia sta affrontando la sfida dell’autonomia energetica e della resilienza climatica.
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