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Nicola Abbagnano ha insistito con lucidità teoretica e passione sulla finitudine dell’uomo, sul suo instabile, aleatorio, incerto stare al mondo.
“Comunque si guardino le cose, l’uomo non è per natura
sua un essere da paradiso terrestre né un diavolo maledetto.
L’alternativa tra ragione e non ragione, tra gli impulsi benefici e
quelli distruttivi, tra l’amore e l’odio, tra la pace e la guerra,
tra la creazione e la distruzione, gli è sempre aperta
dinnanzi e gli impone, non solo in momenti decisivi ma anche negli
atti apparentemente insignificanti della vita, una scelta
incessante e responsabile. È un privilegio di cui non
può vantarsi ma che deve accettare e tener presente se vuole
continuare la sua vita nel mondo”.
Nicola Abbagnano, La saggezza della vita
Sicuramente figura di spicco della filosofia italiana del secondo Novecento, Nicola Abbagnano, a buon diritto, si può considerare il padre dell’esistenzialismo italiano. Egli ha insistito con lucidità teoretica e passione sulla finitudine dell’uomo, sulla sua “perdibilità”, come insegnava Montaigne, sul suo instabile, aleatorio, incerto stare al mondo.
L’uomo deve, dunque, riconoscere, in primis, la sua vulnerabilità, la sua fragilità esistenziale, per farsene carico, con coerenza e fedeltà a se stesso, e viverla con quell’impegno, quella responsabilità verso sé e gli altri che la sua libertà gli mette di fronte come inderogabile dovere morale.
L’uomo, infatti, è un essere progettante, è libero di scegliere tra innumerevoli forme d’esistenza, si può autodeterminare con assoluta trasparenza, tuttavia deve sapere che ogni sua conquista è frutto di uno sforzo, di un impegno serio e costante, di un’ineludibile responsabilità verso gli altri, ai quali quell’impegno deve essere finalizzato: la mia esistenza non è tutta l’esistenza, ma rinvia alla coesistenza con gli altri.
Si capisce, allora, che non c’è crescita personale senza responsabilità, senza che l’io non riconosca il tu in vista del noi; ogni volta che prendo una decisione, che faccio un progetto, che metto in scena la mia libertà, non posso eludere la domanda radicale: quali conseguenze avrà tutto questo sugli altri? La comunità nasce nel momento in cui prende forma il dialogo responsabile con gli altri, quando, insomma, all’egoità subentra la reciprocità, per la quale, nell’ottica di Martin Buber, il maestro della relazione “Io-Tu “, le relazioni isolate, frammentate, si uniscono armoniosamente in quel “centro vivente” che è la solidarietà cosmica.
La responsabilità verso gli altri presuppone un cammino lungo e difficile, le cui tappe trapassano dal dissodamento interiore e dalla cura di sé all’attenzione, alla comprensione, al pudore verso gli altri.
Tuttavia chi rinuncia a questo, rinuncia anche ad essere uomo: per dirla ancora con Buber, all'”Io-Esso”, luogo dei rapporti impersonali, superficiali, bisogna sostituire, pur con tutti i limiti connessi alla nostra finitudine, l'”Io-Tu”, luogo dei rapporti autentici, delle relazioni profonde, non strumentali, disinteressate.
Valgono, allora, le splendide parole di Emmanuel Lévinas, il filosofo della centralità del “volto” e dell’etica dell’alterità: ” L’incontro con Altri rappresenta immediatamente la mia responsabilità per lui: la responsabilità per il prossimo, che senza dubbio è l’austero nome di ciò che si chiama amore del prossimo, amore senza Eros, carità, amore in cui il momento etico domina il momento passionale, amore senza concupiscenza. Non mi piace molto la parola amore, che viene usata e abusata. Parliamo piuttosto di una presa su di sé del destino altrui. Questa è la “visione ” del Volto, e si applica al primo venuto”.
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