La capitale dello Sri Lanka ha sottratto le plaudi che la circondano ai rifiuti, grazie agli sforzi delle istituzioni e della comunità.
La storia del lupo in Italia. Il caso del Parco nazionale dello Stelvio
Un animale simbolico e dalla storia interessante: il lupo torna a essere più presente in Italia e il suo ruolo ecologico è fondamentale.
- Il lupo e le aquile
- Il lupo, un mestiere
- Il lupo, una storia naturale
- Una parabola
- Un movimento
- Una leggenda moderna
- Il lupo, un numero
Chi non ha per il lupo un interesse specifico, o una preoccupazione specifica, in genere ne è curioso, affascinato e desidera morbosamente di poterne vedere uno. Luoghi perfetti per chi si vuole avvicinare al mondo del lupo in contesti di grande naturalità sono le aree protette italiane e in particolare i Parchi nazionali. I Parchi non sono, come a volte si sente dire, aree recintate all’interno delle quali sono rinchiusi animali e piante rare, ma sono enti pubblici che tutelano aree geografiche più o meno ampie con azioni dirette e indirette, per lo più legate a progetti di monitoraggio, ricerca, gestione e sviluppo sostenibile. Un Parco che ospita una piccola popolazione di lupi e rappresenta, in un certo senso, un’anomalia nel panorama alpino, è il Parco nazionale dello Stelvio.
Il lupo e le aquile
Era maggio, ed era l’anno scorso. Voglia di evadere dai ritmi televisivi, dai momenti promozionali, dal ciclo di eventi famigliari e da quello degli eventi pubblici. L’occasione me l’ha offerta Valeria, la mia amica forager che io ho ribattezzato, ormai secoli fa, Vale delle piante. Lei di contro mi chiama Mia dei lupi. Vale aveva questo desiderio immenso di esplorare un’area naturale alpina popolata da lupi e aquile, creature iconiche di paesaggi inviolati dall’essere umano. E così ci siamo incontrate in un bar vicino a Bormio, insieme a Elena e Marco, nuove leve della divulgazione scientifica. Se dovessi descriverle con una sintesi netta queste due nuove leve, la prima non toglierebbe gli sci dai piedi nemmeno a Ferragosto, il secondo non toglierebbe le pinne neppure a Natale. Ma soprattutto ci aspettava Enrico, ornitologo allergico alla modernità, che ci ha accompagnati per una intera giornata lungo sentieri e fuori sentiero del parco nazionale dello Stelvio. Una giornata da torcicollo, durante la quale abbiamo scrutato ogni angolo di cielo e parete rocciosa in cerca di piume, becchi e artigli, per poi inciampare nella presenza timida del lupo, una carcassa di cervo di cui restavano tutti i segni della predazione. Ossa spezzate, una grande chiazza di pelo, segni del suo trascinamento, una scena del crimine perfetta, rimasta nascosta finché il nostro gruppo affamato di natura selvaggia non lo ha scoperto tra i cespugli e l’erba alta e seccata dal freddo dell’inverno passato.
Con i suoi 130mila ettari di estensione, il Parco abbraccia un ampio settore delle Alpi centrali e per circa tre quarti il suo territorio si estende al di sopra dei duemila metri di quota. Cime impervie, ghiacciai e nevi perenni rendono questa area protetta al confine tra Trentino Alto Adige e Lombardia un luogo duro perfino per i lupi. Eppure, anche qui, tra le creste dominate da aquile e gipeti e le pareti a strapiombo che ospitano i loro nidi, i lupi ce l’hanno fatta. Tre piccole valli, la Val Grande, la Val Canè e la Val di Viso, sono incisioni nelle cui fessure questi animali silenziosi ma generosi di tracce si muovono, predano, e sopravvivono agli inverni glaciali. Le prede non mancano, con una grande popolazione di cervi, i camosci, gli stambecchi, i caprioli, le marmotte e l’imminente arrivo del cinghiale. Il primo avvistamento risale a circa dieci anni fa, in Val Grande. La sagoma del lupo si stagliava netta con il suo mantello grigio sull’erba secca e gialla e le macchie di neve in procinto di sciogliersi. Da allora, biologi e studenti del Parco si susseguono nelle attività di monitoraggio, per tenere traccia di un ritorno guardato ancora con sospetto dalle comunità locali, preoccupate, come nelle migliori storie, dell’incolumità dei bambini.
Il lupo, un mestiere
Salutato con grande tristezza Enrico, che tutti avremmo voluto portare con noi ovunque per sempre, la mattina successiva abbiamo incontrato Luca, biologo del Parco, e i suoi ragazzi, tecnici faunistici che da anni studiano predatori e prede della zona. Vere enciclopedie tascabili viventi del territorio dell’area protetta, scarponi ai piedi e gamba, come si dice in gergo popolare, ci siamo arrampicati lungo altri sentieri resi impervi dagli abeti caduti. Gli stessi sentieri frequentati dai lupi, da un branco in particolare, che crea qualche tormento agli abitanti più a valle lasciando frequenti tracce della propria presenza e soprattutto della propria fame. I lupi non sono animali facili da studiare. Sono notturni, occupano territori molto vasti e si muovono su lunghe distanze con un trotto allegro andante. Occorre imparare quali sono i sentieri che preferiscono, i valichi, i passi di montagna, le valli e vallecole che prediligono per la caccia o la riproduzione, e ogni stagione ha la sua tecnica di studio di elezione. In inverno, la tecnica delle tracciature su neve permette di seguire il branco per diversi chilometri e attraverso l’osservazione delle piste si può risalire al numero di esemplari che compongono quello specifico nucleo famigliare. La presenza di sangue nelle urine ci indica che la femmina potrebbe essere in calore, e le feci, preziosissime per le analisi genetiche, si stagliano bene sul bianco lucente della neve, rimangono fresche più a lungo e conservano DNA di alta qualità. Proprio il DNA ottenuto dalle feci permette di costruire un albero genealogico del branco, e anche questa è una tecnica, che si può utilizzare tutto l’anno. Le fototrappole permettono di riprendere il branco nei suoi spostamenti, a conferma di altri dati raccolti, mentre in estate la tecnica dell’ululato indotto fa sì che si possano individuare le cucciolate, altrimenti difficili da trovare. Controllando le fototrappole insieme a Luca, i lupi ci hanno dato modo di credere della loro presenza: nei filmati in bianco e nero eccoli lì trottare a coda dritta, incuranti delle nostre tecnologie e dei nostri atti di spionaggio. Vale era elettrizzata, Elena emozionata e Marco forse ragionava su come mettere fototrappole sott’acqua, ad ogni modo passeggiare in montagna sugli stessi sentieri dei lupi fa sempre un certo effetto. A me, ma solo per abitudine, restituisce un sentimento di casa e fiducia. Grazie alle tante tecniche di studio inventate dall’essere umano, la natura diventa così un libro, fatto di segni da leggere e interpretare per dare loro un senso. E del resto è lì che ci piace immaginare il lupo, a metà tra la realtà e il racconto.
Il lupo, una storia naturale
Il lupo è alle porte, letteralmente. Relegato a foreste e cime montuose dall’immaginario collettivo, in realtà questa icona vivente della natura più selvaggia è in grado di abitare qualunque habitat terrestre e trarre vantaggio da qualsiasi risorsa alimentare. Documentari americani e romanzi lo hanno dipinto per decenni come un animale in grado di abitare solo luoghi remoti, lontani dagli insediamenti umani. Gli incontri con il lupo sembravano così essere possibili solo grazie ad estenuanti campagne di ricerca attraverso lande di steppa e tundra, o appartenevano a storie che a loro volta appartenevano ad un’altra epoca, dominata da cacciatori e pastori. In tutto il mondo veleno, tagliole e fucili hanno trasformato i lupi in una favola vivente, portandoli all’estinzione, o sul suo orlo, quasi ovunque. Oggi, è difficile convincere l’opinione pubblica del loro ritorno alla realtà, del loro essere usciti da secoli di leggende e racconti mitologici, ma spogliati del mito. E soprattutto è difficile spiegare che i lupi non vivono solo in montagna, non lo hanno mai fatto del resto, e vederli correre nei campi, tra il mais e l’orzo, o lungo le strade, o in riva al mare, fa parte di una storia spesso lontana da quelle che si raccontano: quella che in zoologia si chiama storia naturale.
Una parabola
Per decine di migliaia di anni sono stati tra i predatori più diffusi al mondo, occupandone metà, quella che noi usiamo chiamare emisfero boreale. Nei confronti del lupo l’essere umano ha conservato a lungo una forma preistorica di meraviglia e rispetto, ammirandone le doti venatorie e a volte uccidendolo, ma mai in nome di una forma di prevaricazione, mai per il mero interesse economico, semmai per il suo valore altamente simbolico, per la pelle, per i denti, per le sue funzioni totemiche. L’avvento dell’agricoltura, circa diecimila anni fa, e con essa la nascita delle prime forme di allevamento, hanno drasticamente cambiato la sua percezione e ne hanno disconosciuto il ruolo ecologico, che era invece sempre stato chiaro, almeno fino ad allora. La necessità di difendere il bestiame per lungo tempo ha convissuto con un timore reverenziale, senza mai inciampare nel desiderio di sterminare ogni esemplare della specie pur di liberarsene per sempre. L’attecchimento del Cristianesimo, nel secondo Medioevo, ha invece portato il conflitto ad un livello superiore. La religione aveva bisogno di raccontare storie che indottrinassero facilmente le masse, colpendo la loro immaginazione, le loro paure e aspirazioni. Così occorreva trovare metafore, che includessero nemici e figure salvifiche. E chi meglio del lupo, animale associato alla notte e alla selva oscura, per rappresentare il male, e il gregge, indifeso ma compatto, a rappresentare gli uomini, in sua eterna balìa? Al clero il ruolo del buon pastore, che protegge le sue pecore dagli attacchi continui dei lupi e al quale le pecore devono obbedire, pena la morte. E così, la compagnia ha iniziato la tournée e la tournée ha avuto un successo sorprendente. Agli effettivi problemi creati dai lupi a chi allevava pecore e capre, o maiali bradi, si sono sommati i problemi immaginari di un lupo malefico, che insidiava l’essere umano. Carestie ed epidemie hanno consacrato definitivamente la sua natura demoniaca, avvicinandolo per opportunismo alimentare ai cadaveri umani, e poi inducendolo ad attaccare – seppur sporadicamente – esemplari della nostra specie ancora in vita. Questo è ciò che è accaduto negli ultimi mille anni, e che ha cristallizzato il lupo in quell’animale selvatico che o si ama o si odia, senza vie di mezzo.
Un movimento
A partire dagli anni Sessanta si è fatta lentamente, ma inesorabilmente, strada una nuova visione della natura e dei suoi elementi, una strada non più battuta solo da qualche conservazionista illuminato ma da una larga fetta dell’opinione pubblica, destinata ad allargarsi con rapidità. In Italia, associazioni come il Wwf hanno iniziato campagne di sensibilizzazione per la tutela del lupo già agli inizi degli anni Settanta, quando la specie era prossima ad estinguersi a causa di una caccia indiscriminata e rimanevano pochi branchi concentrati sull’Appennino centrale e meridionale. I primi decreti di tutela sono arrivati negli stessi anni, dando finalmente a questo predatore, perseguitato come pochi, un po’ di respiro. In Italia, ma anche nel resto d’Europa, si parla spesso di reintroduzioni o ripopolamenti segreti, ad opera di ambientalisti e istituzioni.
Una leggenda moderna
Una leggenda moderna, che si accompagna alle vecchie e che è durissima da scardinare poiché di animali selvatici in natura ne sono stati reintrodotti parecchi, dai cervi ai caprioli, dai cinghiali agli orsi, oltre alle introduzioni vere e proprie, più o meno antiche, di specie provenienti da altri Paesi, come fagiani, mufloni e daini. La leggenda della reintroduzione dei lupi sostiene facilmente la causa di quei cacciatori e allevatori che vorrebbero un nuovo sterminio. Sebbene non tutti, molti degli appartenenti a queste due categorie non accettano di dover condividere il territorio con un predatore di tale calibro, per di più protetto e dunque intoccabile. La verità è che i lupi, come si diceva inizialmente, non sono animali relegati alle foreste montane. Sono in grado di adattarsi a qualsiasi clima, altitudine e preda, sono ecologicamente plastici ed elastici, estremamente opportunisti e, oggi che non sono più cacciati, prolifici. Vivono organizzati in branchi di pochi esemplari, con la coppia dei genitori a guida del branco e i figli ad aiutare nel pattugliamento del territorio e nell’allevamento dei nuovi nati. Raggiunta la maturità sessuale lasciano la famiglia di origine e cercano un territorio libero, per evitare di essere uccisi dagli altri branchi. Questo meccanismo di esplorazione, riproduzione ed evitamento della morte ha portato il lupo ad espandersi con tempi rapidi verso sud e verso nord, colonizzando tutte quelle aree dalle quali era stato estirpato, come un’erbaccia, nonostante quelle stesse aree non siano più naturali come alcuni decenni o secoli fa. La Pianura Padana, ad esempio, non ospita più grandi paludi, boschi igrofili e foreste di alberi secolari, né tutte le prede che li avrebbero popolati, ma oggi è ricca di nutrie e ratti, e di altri animali altamente adattabili, come i cinghiali. La vegetazione agricola, insieme a filari e piccole boscaglie, offre comunque riparo, e quindi i lupi trovano, nonostante tutto, un ambiente in grado di sostenerli sul lungo periodo.
Il lupo, un numero
Un’altra leggenda moderna, nata con il ritorno dei lupi, riguarda il loro numero lungo la penisola. I dati, le informazioni, ma soprattutto le opinioni, sono stati a lungo difficili da interpretare e discordanti. Nel 2020, dopo almeno un paio di anni dedicati alla pianificazione, è iniziato il Monitoraggio nazionale del lupo. Un progetto che segna una pietra miliare nella storia di conservazione del lupo in Italia, perché per la prima volta le attività di monitoraggio sono state coordinate tra tutte le regioni, nei metodi e nei tempi. Un’operazione logisticamente e tecnicamente complessa, anche a causa dei tanti limiti imposti dalla pandemia, che però ha finalmente restituito una fotografia unica e preziosa della presenza del lupo lungo la penisola, da nord a sud. Un’istantanea scattata a distanza di cinquant’anni dalla protezione legale del lupo e di trent’anni dalla nascita della Direttiva Habitat, uno strumento importantissimo per la tutela di specie e habitat europei che chiede agli stati membri proprio un monitoraggio sistematico e regolare. I sette mesi di attività di campo, con impegnati decine di tecnici e centinaia di volontari in tutte le province italiane, hanno messo in luce le aree di presenza stabile del lupo e fornito i numeri di questa presenza. Secondo una stima prudenziale oggi i lupi sono circa 3.300, un buon numero da un punto di vista conservazionistico, che non permette però di abbassare la guardia su alcune problematiche, come il conflitto con gli allevatori e i cacciatori, il bracconaggio e l’ibridazione con i cani domestici. Nessun rischio per l’essere umano, che non rientra nell’alimentazione del lupo.
Tuttavia, rimangono alcune zone d’ombra legate alla necessità di lavorare in modo puntuale e capillare con gli allevamenti, poiché ci sono zone colpite dagli attacchi con maggiore frequenza e nelle quali occorre investire – da parte delle istituzioni – in programmi di supporto e prevenzione dei danni. Non esiste invece un vero problema per quanto riguarda l’attività venatoria. I cacciatori lamentano di fare fatica a individuare gli animali da abbattere loro assegnati sul territorio, perché a causa del ritorno del lupo si comportano in modo diverso. E questo è vero, perché in presenza di predatori gli ungulati, prede d’elezione, tendono a adottare comportamenti e strategie utili a evitare attacchi, utilizzando aree più impervie ad esempio, o formando gruppi e mandrie più numerosi. Non è però vero che il ritorno del lupo abbia ridotto il numero degli ungulati. Al contrario questi sono in aumento esponenziale, ben più dei lupi stessi, da anni, e anzi i numeri raggiunti da alcune specie localmente – come il cinghiale, o il cervo – sono preoccupanti sia per l’agricoltura che per il rinnovamento forestale e altri ecosistemi più fragili.
Mia Canestrini è zoologa, autrice e divulgatrice scientifica. Per oltre 17 anni si è dedicata allo studio dei lupi tra il Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, il Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano e l’Irpinia. Cura la rubrica La Bella e le Bestie per Radio 105 e da alcuni anni è ospite e conduttrice di alcuni programmi Rai, tra questi Il provinciale. Tiene seminari sulla comunicazione della scienza e sulle human dimensions nella conservazione della biodiversità per i Master faunistici degli atenei di Venezia e Padova.
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