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I Macchiaioli furono dei precursori, anticipando alcuni tratti dell’Impressionismo francese. La mostra alla Gam Manzoni di Milano documenta gli esiti più significativi del movimento pittorico ottocentesco, dal 20 ottobre al 25 febbraio.
Il proposito che li animava era quello ricorrente e comune alla quasi totalità degli artisti di ogni epoca: oltrepassare le convenzioni, catturare la sostanza reale delle cose, elaborare un linguaggio espressivo inedito e distante dall’accademismo coevo.
A distanza di oltre un secolo e mezzo, si può ritenere che i Macchiaioli abbiano centrato l’obiettivo dato che la Gam Manzoni di Milano ha scelto di consacrare la sua prossima mostra, “I Macchiaioli. Capolavori delle collezioni lombarde” – che aprirà i battenti il 20 ottobre protraendosi fino al 25 febbraio – all’eredità peculiare di questo movimento artistico ottocentesco destinato a marcare gli albori della pittura moderna italiana.
Da Telemaco Signorini a Giovanni Fattori, da Odoardo Borrani a Giuseppe Abbati, Nino Costa, Silvestro Lega e altri, l’antologia delle 35 opere esposte si orienta verso un focus preciso, ovvero l’intento di documentare la ricezione e la fortuna di questo stile pittorico nell’ambito delle collezioni private lombarde, come si evince dall’esplicito sottotitolo della mostra “I Macchiaioli. Capolavori delle collezioni lombarde”.
Non a caso i curatori del progetto espositivo, ovvero Francesco Luigi Maspes ed Enzo Savoia, sono anche gli ideatori della sede museale, sorta nel 2012 con il nome esteso di Centro studi per l’arte moderna e contemporanea.
Esattamente come accadde per tante altre correnti artistiche, quali ad esempio l’Impressionismo o il Barocco, le cui denominazioni ufficiali trassero origine da epiteti inizialmente denigratori, anche la definizione di Macchiaioli derivava dall’approccio ironico dei pittori accademici dell’epoca che, proprio in occasione della mostra Promotrice fiorentina del 1861, coniarono il poco lusinghiero appellativo in questione, poi mutuato, sempre in chiave dispregiativa, dai giornalisti della Gazzetta del popolo e infine assunto dagli artisti stessi per autoidentificarsi.
Abituati a riunirsi in una sede prestabilita, ovvero il Caffè Michelangiolo di Firenze, in via Larga (l’odierna via Cavour), i Macchiaioli si infervoravano in vivaci scambi di opinioni, non solo a proposito di temi artistici o pittorici ma anche su argomenti di carattere politico, dato che gran parte di loro coltivava orientamenti patriottici che in seguito li avrebbero indotti addirittura a sostenere la causa risorgimentale.
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La cifra stilistica che contraddistingue l’opera dei Macchiaioli presenta evidentissime assonanze con l’universo pittorico degli impressionisti, che proprio in quegli anni andavano elaborando i primi fondamenti della loro imminente rivoluzione.
Esattamente come i loro “colleghi” d’Oltralpe, ma con l’anticipo cronologico dei veri precursori, i Macchiaioli prediligevano gli accesi contrasti luminosi e gli agglomerati compatti di colore (le cosiddette “macchie”, appunto), contrapponendosi nettamente alle convenzioni accademiche dell’epoca che invece imponevano tonalità omogenee e pacate.
Nel tentativo di perseguire effetti più schiettamente realistici, i Macchiaioli optavano dunque per i chiaroscuri decisi, i profili scontornati e soprattutto per quell’approccio in presa diretta o “en plein air” (all’aria aperta) che in seguito sarebbe divenuto un tratto distintivo degli impressionisti.
E tuttavia, pur traendo espliciti spunti dalla pittura francese, ad esempio da quella di Edgar Degas che in quegli anni soggiornò a Firenze, questi artisti non vollero approdare a quegli effetti di rarefazione luminosa e scomposizione cromatica tipici dell’Impressionismo, ma anzi declinarono la loro cosiddetta “pittura dal vero” in una chiave paesaggistica e geografica molto concreta e riconoscibilmente legata ad alcune realtà territoriali tra le quali soprattutto quella toscana (Piagentina e Castiglioncello in particolare) e ligure.
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