
Ha dato il via ai concerti ad alta quota ben 28 anni fa distinguendosi sin dall’inizio per il rispetto delle terre alte. Sancito anche da un manifesto.
Da Rosalía a Sudan Archives passando per Caterina Barbieri, vi presentiamo alcuni tra i nomi internazionali più originali e convincenti della musica al femminile.
Nell’industria musicale esiste da sempre un problema di disparità di genere. Lo spazio riservato alle artiste nei cartelloni dei festival è limitato. Secondo il Guardian, i due terzi delle esibizioni dal vivo nel Regno Unito non vedono ragazze sul palco. E in Italia la situazione non è migliore. Tanto che, se si aggiunge il modo in cui le donne sono ritratte e apprezzate, la loro probabilità di emergere rimane bassa. Uno studio della University of Southern California, l’Annenberg Inclusion Initiative, rileva che le donne negli Stati Uniti rappresentano a stento il 22 per cento di tutti gli artisti, il 12 per cento dei cantautori e solo il 2 per cento dei producer. Il gender gap sembra un muro invalicabile a livello globale, eppure ci sono alcune artiste che lo stanno infrangendo.
Tralasciando il boom di rapper e idoli pop adolescenziali, ecco le artiste sulle quali puntare i riflettori: Sudan Archives, Rosalía, Sevdaliza, Nilüfer Yanya, Lawfandah, Clairo, Caterina Barbieri, Gaye su Akyol, Deena Abdelwahed, King Princess. Sono giovani, hanno personalità e si distinguono per la freschezza della loro proposta musicale al di fuori di ogni schema o provenienza geografica. Compositrici creative, cantanti virtuose, musiciste autodidatte, ma anche cantautrici, produttrici e artiste a tutto tondo, sono i nuovi volti internazionali della musica al femminile. Danno il meglio di sé maneggiando una chitarra, un violino, un sintetizzatore oppure un microfono. Bucano l’obiettivo. Sono consapevoli della propria immagine così come dei limiti e delle opportunità dei mezzi digitali. Si impegnano sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e di genere.
Unica nel panorama musicale attuale, la statunitense Sudan Archives, alias Brittney Parks, impara a suonare il violino a orecchio nel coro della chiesa del padre a Cincinnati, in Ohio. A diciannove anni si trasferisce a Los Angeles, dove studia music technology e produzione digitale. Da qui, le sue prime composizioni in casa, che uniscono ritmi folk del nord Africa – a cui si ispira – a sonorità r’n’b, note di violino, elementi di elettronica sperimentale e funk. Athena, il suo disco d’esordio appena uscito e già ampiamente lodato, esplora le dualità, i confini tra bene e male, tra vulnerabilità e forza, tra confidenza e isolamento, tra il suo modo di essere e come invece viene percepita.
Mischiando diversi generi attuali alla tradizione spagnola del flamenco, Rosalía ha lanciato uno stile musicale personale. Dopo lo scarto al talent show Tú Sí Que Vales, studia flamenco al Catalonia College of Music, che accetta solo uno studente all’anno per il programma. Si laurea in flamenco e produzione musicale nel 2017. Nello stesso anno pubblica il suo primo album che, come pure il secondo, è scritto e registrato senza alcuna etichetta discografica. Rosalía non si limita a esibirsi, tutt’altro: compone, produce, crea gli arrangiamenti, suona le tastiere e il basso. I suoi testi parlano di empowerment delle donne. Ottenuti i primi riconoscimenti, viene criticata per essersi appropriata della cultura gitana. La risposta della cantante è emblematica: “La musica non ha nulla a che fare con il sangue o il territorio. Mai. Ho studiato il flamenco per anni, lo rispetto più di ogni altra cosa e ne conosco le origini. So che proviene da un mix di etnie, è una fusione di suoni zingari, neri, ebraici, arabi, spagnoli. Ma non è di proprietà di nessuno. E non c’è niente di male a sperimentarci”.
L’artista iraniana di adozione olandese Sevda Alizadeh, in arte Sevdaliza, è una ex nazionale giovanile di basket che, da quando ha messo piede su un palco, ha ipnotizzato il proprio pubblico e ispirato numerosi stilisti. Le sue performance sono imprevedibili e arty, ma prendono precise posizioni politiche attraverso composizioni che sostengono il femminismo e i diritti delle donne. La cantante intona brani in lingua persiana (farsi), senza timore, per reagire ai veti di Trump sui musulmani. Sevdaliza dimostra che la musica pop può essere più di una semplice melodia orecchiabile. Il suo stile vocale potrebbe rievocare Beth Gibbons dei Portishead, con qualche riferimento al trip hop, all’r’n’b, al pop sperimentale e all’elettronica di artiste contemporanee che l’hanno preceduta, come FKA twigs e Little Dragon.
Figlia di due artisti visivi nel cuore di Londra, Nilüfer Yanya cresce con la musica turca del padre e la classica di sua madre, che è mezza irlandese e mezza bajan (delle Barbados). Comincia a suonare il pianoforte all’età di sei anni e la chitarra a dodici, quando si approccia al rock e compone le prime canzoni ispirate a gruppi come Pixies, Cure e Bloc Party. Introversa e riflessiva, Nilüfer, che in turco significa “giglio”, a vent’anni rifiuta di unirsi a una band femminile proposta da Louis Tomlinson degli One Direction. La fusione di così tante influenze la aiuta a creare un suono originale ma coerente. “Penso che mi faccia sempre tracciare un collegamento tra le cose, a cui sto ancora cercando di dare un senso”, spiega in un’intervista. A marzo pubblica il suo album di debutto, Miss Universe, ricevendo recensioni entusiastiche per la sua voce malleabile ed espressiva, ma soprattutto per la sua capacità melodica e lo stile minimalista. La sua musica è emotivamente irrequieta, influenzata dall’indie rock, ma anche da soul, jazz e trip hop. Nina Simone, Jeff Buckley e Bill Withers sono adesso i suoi ascolti preferiti, e si sente.
Lo scorso marzo è uscito anche Ancestor Boy, il primo album di Lafawndah, una musicista egiziano-iraniana che attinge dalle proprie origini per creare canzoni pop sperimentali. L’album è influenzato da artisti come Scritti Politti, Grace Jones e Sade, così come dalla passione per il grande schermo, in particolare i film Tre Donne di Robert Altman e The Assassin del regista taiwanese Hou Hsiao-Hsien. Come nell’immagine di copertina di un suo ep, dove ha un coltello infilato nella bocca, il pericolo fa parte della sua musica. “La sensazione di un coltello in fondo alla gola, dove non si capisce se io lo stia calando o tirando fuori, è la stessa di quando canto: non è una comfort zone, ma un luogo dove si rischia”, racconta a The Guardian. Lafawndah non si è formata in alcuna accademia musicale, ma attinge dai ritmi mediorientali e caraibici e dalla musica da club che ha scoperto a New York. Per un periodo è stata anche in Messico, dove si è invaghita di cumbia e salsa. Una parte della sua infanzia l’ha trascorsa a Teheran, in piena guerra, dove si distraeva con la musica classica persiana ascoltata dai nonni. A Parigi, invece, ha scoperto lo zouk, una musica carnevalesca frenetica, che l’ha portata in un viaggio – anche sonoro – a Guadalupa.
La camera da letto ha sostituito il garage come luogo di ritiro per gli adolescenti in vena di fare musica. Niente più amplificatori giganti o set di batterie, ma wifi, laptop e software di registrazione domestica. Il rock rumoroso ha lasciato posto a suoni più sommessi, rivolti a Internet, magari nascosti agli adulti. Questa forma di musica lo-fi generata dall’autoisolamento si chiama bedroom pop. Claire Cottrill, in arte Clairo, ne è l’emblema più recente. Dal suo primo video per la canzone Pretty Girl, registrato con una webcam e visualizzato oltre 42 milioni di volte su Youtube, all’album Immunity uscito il mese scorso, il passo – sempre sospeso tra ingenuità e ammiccamento – è stato breve.
La compositrice Caterina Barbieri, di base a Milano dopo anni a Berlino, ha creato un proprio universo sonoro fondato sui sintetizzatori modulari, sull’amore per il minimalismo e sulle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. Emerge da una nutrita schiera di musiciste di elettronica colta, accademica e d’avanguardia, che proprio nel minimalismo trova il terreno più fertile. “La musica è geometria – ha raccontato al magazine The New Noise qualche anno fa – e in noi fa rivivere le geometrie del cosmo. Poiché tramite il suono e le sue architetture arriviamo a intendere universali principi di vibrazione. La musica opera la connessione fra manifesto e non manifesto, uomo e cosmo, corpo e mente, in una spirale fra il dentro e il fuori, il micro e il macro, svelando l’infinito potenziale spirituale e fisico che ogni individuo si porta dentro”. Il suo nome, complici merito e dedizione, campeggia ormai in tutti i festival più importanti al mondo.
Nata a Istanbul in una famiglia di artisti, Gaye Su Akyol assimila stili e generi del mondo musicale anatolico, che risente di molte culture, fra cui quella greca e armena. Studia antropologia e dopo la laurea si occupa di pittura e musica, facendosi le ossa in alcune band underground. Esordisce nel 2014 con un disco che tratta di politica e problemi sociali, con critiche esplicite al governo turco. Tracce di musica surf, psichedelia, grunge e rock occidentale sono sempre presenti nei suoi lavori, che parlano comunque di libertà, amore e meditazione. Gaye è così diventata icona libertaria del nuovo sound di Istanbul e dell’anatolian rock. Nel 2017, il regista Ferzan Ozpetek l’ha coinvolta nella colonna sonora del film Rosso Istanbul.
Rispetto alla maggior parte della musica tunisina contemporanea, il suono di Deena Abdelwahed è provocatoriamente sperimentale. I suoi pezzi abrasivi di techno e ambient si rivolgono a un pubblico di appassionati, che in Europa è sempre più ampio. Nata in Qatar da genitori tunisini, la produttrice e dj trascorre i suoi primi 18 anni in una comunità di espatriati a Doha. Durante le vacanze estive in Tunisia, sogna di trasferirsi nella capitale. Canta cover di brani jazz negli hotel, scoprendo artisti che collegano funk, hip hop e musica elettronica, come Flying Lotus e J Dilla. Ma trova la sua prima casa musicale nel footwork di Chicago. Un genere che, proprio come la musica araba tradizionale, si concentra su percussioni veloci e precise. Deena Abdelwahed vuole scrivere il manifesto di una generazione che non cerca di accontentarsi e conformarsi, ma di riprendere il controllo della propria identità, fatta anche di perdite e caos.
Mikaela Strauss, in arte King Princess, è una polistrumentista nata a Brooklyn che si sta rapidamente affermando nel mondo del pop. Dopo aver rifiutato un contratto discografico all’età di undici anni, la sua carriera è decollata con l’uscita del singolo 1950, che attualmente conta quasi 300 milioni di ascolti solo su Spotify. La ventenne è nota per il suo avvincente suono indie pop e per i testi a tema gender. Essendo membro attivo della comunità lgbqt, l’artista ridefinisce la femminilità con la sua natura radiosamente spericolata e spensierata. Con l’uscita del suo album di debutto, Cheap Queen, King Princess è già pronta a diventare un’icona culturale.
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