Rhome. Un viaggio nelle occupazioni abitative romane

Rinnovare, condividere. Le occupazioni a scopo abitativo di edifici abbandonati sono un esempio di riconversione urbana e un modello di cittadinanza attiva e comunità per il post pandemia. La storia di Porto Fluviale, a Roma.

Alzando lo sguardo nell’atrio d’ingresso di Porto Fluviale, una tela sul soffitto recita l’incipit dell’Odissea in greco, latino, francese, italiano, spagnolo e arabo. Una metafora per esprimere la natura di questo luogo: un’Itaca per chi naviga nel mare dell’emergenza abitativa romana.

Una casa a Porto Fluviale è avere un tetto sopra la testa

Mauro, abitante di Porto Fluviale

Porto Fluviale, Roma
Porto Fluviale è un ex deposito militare a Roma © Lucrezia Lozza

La storia di Porto Fluviale

Porto Fluviale è un ex deposito militare a Roma, abbandonato per un decennio fino al 2003, quando è stato occupato da un gruppo di famiglie. La Capitale italiana è, infatti, un caso unico in Europa per il suo numero di occupazioni a scopo abitativo di palazzi abbandonati, sia pubblici che privati. Attualmente se ne contano 66, che ospitano circa 10mila persone. Uno di questi è Porto Fluviale.

“Una casa a Porto Fluviale è avere un tetto sopra la testa. Altrimenti, sarei in mezzo alla strada”, spiega Mauro, che dopo la separazione dalla moglie e con solo un assegno di disabilità si è trovato in grave difficoltà economica. “Purtroppo se uno va ad occupare non è perché gli piace; io vorrei vivere dentro una casa dove pagherei quello che potrei permettermi di pagare”.

L’emergenza abitativa a Roma

Sin dall’antichità, Roma è stata il centro della vita cittadina. Uno sviluppo urbano caotico e disorganizzato ha prodotto un ritardo cronico nella gestione degli spazi abitativi. Roma, infatti, si trova in una situazione di emergenza abitativa di carattere strutturale. “Le case popolari sarebbero sufficienti. Allo stato attuale a Roma ci sono circa 76mila alloggi popolari”, spiega Enrico Puccini, architetto e autore di Osservatorio Casa Roma, un sito specializzato nel diffondere diffondere informazioni e analisi sulle politiche abitative a Roma.

“Il Comune assegna circa 500 alloggi all’anno. Ma dall’analisi delle statistiche degli sfratti e dei nuclei di nuova formazione, il fabbisogno romano sarebbe di 1.500 alloggi assegnati all’anno. Tolte queste 500 persone che riescono ad ottenere casa, l’alveo dell’emergenza abitativa cresce strutturalmente di 1.000 unità all’anno”. Questo ritardo cronico ha prodotto i 13mila nuclei in emergenza in attesa della casa popolare, a cui si sommano le persone nelle occupazioni. Alcune famiglie attendono da quindici anni l’assegnazione di una casa popolare.

Porto Fluviale, Roma
A Roma ci sono 13mila nuclei in emergenza in attesa di casa popolare © Lucrezia Lozza

Alla radice dell’emergenza abitativa romana ci sono vari fattori. Oltre ai prezzi elevati degli appartamenti sul libero mercato, i processi di assegnazione delle case popolari sono lenti e complicati: una normativa estremamente complessa e diversi soggetti in campo – Comune, Ater e Regione – portano a una gestione obsoleta dell’edilizia residenziale pubblica.

L’occupazione abusiva delle case popolari è la prima causa alla base dell’inefficienza del sistema delle assegnazioni. Allo stesso tempo, vanno sfatati alcuni miti riguardanti questo tipo di abusivismo. “L’occupazione delle case popolari è realtà un fenomeno molto più complesso, molto più articolato”, spiega Puccini. “Il 70 per cento delle persone che occupano una casa popolare appartengono già a nuclei che vi abitano, quindi significa che è un fenomeno fortemente radicato nei quartieri e spesso non avviene per forma coatta”.

Il 2012 è stato significativo per la gestione delle politiche abitative romane. Quell’anno, infatti, viene istituito un nuovo bando per l’accesso delle case popolari dall’allora amministrazione cittadina, con il quale si modifica un bando precedente. Così, dopo anni di attesa, le persone che rientravano nelle sezioni della lista d’attesa interessate dai cambiamenti vedono la possibilità di ottenere un alloggio popolare sparire o allontanarsi significativamente nel tempo. L’anno successivo il numero di occupazioni nella città è raddoppiato.

Riconversione urbana e cittadinanza attiva

Chi entra in edifici abbandonati vuole marcare una differenza etica rispetto a chi occupa abusivamente le case popolari: l’occupazione di uno stabile lasciato in disuso diventa una protesta, un esempio di riconversione urbana di luoghi abbandonati e un modello attivo di cittadinanza, che mette in luce la stridente presenza di immobili vuoti accanto a persone senza casa.

Un luogo che tendeva alla morte viene rigenerato

Emanuela, abitante di Porto Fluviale

Emanuela vive a Porto Fluviale da anni. “Non abbiamo mai voluto occupare le case popolari. Invece, ogni volta che si va ad occupare uno stabile abbandonato lo si valorizza: un luogo che tendeva alla morte viene rigenerato”.

Quando è stato occupato nel 2003, Porto Fluviale era in uno stato di abbandono. Ora, il suo aspetto è completamente diverso. L’intera facciata esterna è decorata dai graffiti dell’artista Blu. All’interno, gli abitanti si dividono le pulizie delle aree comuni e ogni anno pitturano i muri. Fiori e piante crescono in un’aiuola al centro del cortile.

Porto Fluviale
Il cortile comune a Porto Fluviale © Lucrezia Lozza

Le occupazioni a scopo abitativo nascono per risolvere in via temporanea il problema della casa, ma presto si evolvono anche come esempio di buona pratica urbana: nonostante le molte difficoltà, promuovono integrazione, sport e attività a prezzi popolari. La vita all’interno delle occupazioni è all’insegna dell’aiuto e dell’autorganizzazione, una realtà molto diversa all’atteggiamento sanzionatorio cui vengono fatti oggetto gli edifici occupati.

Quando ci si trova in tanti e si esce dalla solitudine, cresce il livello di impegno rispetto al luogo dove abiti e iniziano i ragionamenti su rendere migliore questo posto

Emanuela, abitante di Porto Fluviale

Non è raro vedere diverse famiglie di nazionalità e religione diversa cucinare insieme nella cucina della sala da tè e riunirsi poi nel grande cortile dell’occupazione per pranzare insieme. C’è sempre qualcuno che chiacchiera, gioca al pallone o a carte. Ci si informa sui propri vicini, se stanno bene. Una volta alla settimana gli occupanti si riuniscono in assemblea per parlare di come gestire il vivere comune. “Nelle occupazioni ognuno arriva con un proprio bagaglio e, al di là del bagaglio materiale, si porta anche il proprio bagaglio culturale”, dice Emanuela.

Porto Fluviale, Roma
La vita a Porto Fluviale © Lucrezia Lozza

Oltre all’uso strettamente abitativo, le occupazioni offrono una prospettiva alternativa per l’organizzazione dello spazio urbano. La comunità di Porto Fluviale non guarda solo a se stessa, ma anche alla città circostante. Per ridare valore e offrire servizi alla comunità del quartiere, a Porto Fluviale sono nati una ciclofficina, una sala da tè, laboratori di circo, cucito e oreficeria. La sala da tè è un luogo sociale: una porta dà sulla strada, dalla quale può accedere chi vive nei dintorni o attraversa il quartiere, un’altra conduce al cortile di Porto Fluviale, in un attraversamento che simboleggia l’apertura dell’occupazione al resto della città.

La vita di comunità per il post pandemia

La socialità di Porto Fluviale si è arrestata con la pandemia di coronavirus. “Si è vissuta una vita completamente diversa dagli altri diciassette anni a Porto Fluviale. Non era gestibile avere tutti i bambini nel cortile a giocare. Tanti di noi hanno perso il lavoro. Non abbiamo più fatto iniziative pubbliche, la socialità condivisa con la città si è fermata un anno fa”, spiega Emanuela.

L’emergenza sanitaria non solo ha distrutto la vita di comunità, ma ha aggravato la crisi economica di molte famiglie. C’è stata un’impennata molto forte delle domande per i contributi all’affitto a Roma. “Sono arrivate 50mila domande. Quante di queste si tramuteranno in sfratti? Gli effetti si vedranno nei prossimi anni”, commenta Puccini.

Porto Fluviale, Roma
Momenti di comunità a Porto Fluviale © Lucrezia Lozza

La pandemia ha dimostrato i danni dell’isolamento, soprattutto nelle grandi città. Le occupazioni, invece, offrono un esempio di collaborazione

La pandemia ha dimostrato i danni dell’isolamento, soprattutto nelle grandi città. Le occupazioni, invece, offrono un esempio di collaborazione. Evitare un approccio punitivo e studiare invece le dinamiche sociali positive all’interno dell’occupazione potrebbe essere molto utile per indicarci delle strade future per una vita urbana di comunità e tolleranza.

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