Open innovation: cosa è e a che punto è in Italia

Le aziende necessitano di nuovi stimoli per creare valore e restare competitive. Spesso le risorse interne non bastano ed entra in campo l’open innovation.

  • L’open innovation (innovazione aperta) è un approccio strategico per cui le aziende fanno ricorso a idee, risorse, strumenti e soluzioni tecnologiche che arrivano dall’esterno.
  • L’approccio più diffuso, detto inbound, prevede di avviare collaborazioni con startup e università, attività di crowdsourcing, hackaton o altre iniziative simili.
  • In Italia soprattutto le grandi aziende hanno abbracciato questo approccio collaborativo, mentre le piccole e medie imprese mostrano resistenze maggiori.

Tutti ne parlano, ma siamo sicuri di sapere esattamente di cosa si tratta? L’open innovation sta diventando centrale nelle scelte strategiche di molte aziende, così come tanti altri concetti “cugini”. Per familiarizzare, possiamo provare a tradurlo in italiano: con innovazione aperta si intende un approccio strategico adottato dalle aziende per creare più valore e risultare più competitive sul mercato, ricorrendo a idee, risorse, strumenti e soluzioni tecnologiche che arrivano dall’esterno. Possiamo paragonarlo all’innesto in botanica, che consiste nell’inserire in una pianta rami o gemme di un’altra specie o varietà, allo scopo di migliorarne la resistenza alle avversità climatiche o agli attacchi parassitari, o di ottenere un nuovo individuo in grado di dare frutti più pregiati.

Quando nasce il concetto di open innovation

Il primo a teorizzare il concetto di open innovation fu Henry Chesbrough, professore e direttore esecutivo del Garwood genter for corporate innovation di Berkley, in California, nella pubblicazione “Open innovation: The new imperative for creating and profiting from technology” che risale al 2003. Dopo aver analizzato grandi multinazionali del settore high tech, Chesbrough descrive i tradizionali paradigmi di closed innovation, portata avanti all’interno dell’azienda seguendo strategie consolidate e collaudate, confrontandoli con i nuovi slanci che spostano la ricerca oltre i confini aziendali. Un approccio, quest’ultimo, battezzato appunto come open innovation.

Ma come si mette in pratica l’open innovation?

Ci sono essenzialmente due tipi di open innovation: outbound e inbound. La prima, ancora poco diffusa perché ritenuta rischiosa, è un processo di esternalizzazione di stimoli e idee interni per portare innovazione all’esterno dell’azienda, per esempio attraverso joint venture (accordi per cui tanto gli utili quanto i rischi vengono divisi). La formula più diffusa, l’inbound, si basa invece sulla ricerca di nuove idee e nuovi progetti esterni per portare innovazione all’interno dell’azienda.

Come si avvia questo processo? Essenzialmente attraverso collaborazioni di varia natura con startup e università, ricorso a crowdsourcing, a call for ideas, all’user innovation o all’organizzazione di hackathon, datathon, appathon o hub interni, fino ad arrivare a vere e proprie acquisizioni. L’obiettivo finale dell’open innovation quindi, è una contaminazione di idee, soluzioni, processi, persone, competenze e risorse aziendali in grado di generare vantaggi per tutti gli attori: le grandi aziende, le startup, i vari partner, i singoli “inventori” e, in ultima analisi, il mercato.

Semplice, no? Non tanto in realtà. Immaginiamo per esempio che, per concretizzare l’innovazione aperta, una realtà imprenditoriale già consolidata decida di acquisire una startup: una manovra simile implica una non facile revisione dei processi e della cultura aziendale. Per questo motivo negli ultimi anni è addirittura nata una figura professionale dedicata: l’innovation manager, una sorta di facilitatore del processo, in grado innanzitutto individuare le opportunità e, in secondo luogo, di introdurre e sviluppare internamente una cultura del cambiamento.

Open innovation
La partnership tra startup e aziende si fonda su sinergie e delicati equilibri © Jason Goodman/Unsplash

Il potenziale di innovazione delle startup

Acquisire startup innovative è una delle modalità preferite dalle aziende per fare open innovation. Generalmente si tratta di una situazione win-win. Da un lato, le imprese si assicurano in un colpo solo nuove idee, tecnologie e competenze e hanno la possibilità di confrontarsi con un modello organizzativo più lean, giovane e aperto. Dall’altro, le startup accedono a capitali più ampi e acquisiscono know how, esperienza e connessioni. In un momento di profonda crisi come quella legata al coronavirus, per esempio, moltissime startup hanno dato prova resilienza, sfruttando il loro dna creativo e generando soluzioni per affrontare le conseguenti sfide economiche e sociali.

L’ostacolo più grande da superare quando si sceglie questo paradigma di open innovation sta nel coniugare contesti che il più delle volte sono profondamente differenti tra loro per cultura, metodologia, approccio, tempistiche e governance. Da un lato sta alle aziende il compito di allineare i propri tempi e i propri processi organizzativi ai ritmi delle startup, dall’altro queste ultime, a loro volta, devono cercare di adeguarsi alla complessità organizzativa dei loro interlocutori, in modo da creare una sinergia tra i rispettivi mondi.

Per questo, saper determinare su quale startup puntare e che tipo di collaborazione instaurare è fondamentale per un’azienda che voglia attuare un proficuo progetto di open innovation. Le startup possono essere ingaggiate con modalità di relazione differenti, come collaborazioni nell’area ricerca e sviluppo, forniture spot oppure a lungo termine, programmi di incubazione o accelerazione, partnership per la co-creazione e innovazione del modello di business complessivo, fino alla partecipazione all’equity della startup e alla vera e propria acquisizione della stessa da parte dell’azienda.

Con Lifegate Way l’innovazione è anche sostenibile 

LifeGate propone un approccio di innovazione aperta tramite la sua controllata LifeGate Way, costruendo un ecosistema di startup sustainable native italiane da cui attingere, stimolando corporate, venture capitalist (vc) e stakeholder all’adozione di pratiche virtuose e nuovi modelli di pensiero. Che innovazione sia, insomma, purché sostenibile: del resto leggi, normative e sensibilità dei consumatori vanno sempre più verso questa direzione. Sono tanti e rispondono alle esigenze più svariate gli strumenti e le soluzioni che LifeGate Way mette a disposizione delle aziende del suo ecosistema. Per esempio, Sustainable South Working risponde a una challenge o una tematica d’indagine lanciata dall’azienda partner facendo allo stesso tempo formazione e team building attraverso attività esperienziali. Le persone sono il motore e allo stesso tempo la benzina della “macchina startup”: se qualcosa non va si ferma anche tutto il resto. LifeGate Way con il programma People lavora sia sulle singole individualità sia sulle dinamiche di gruppo per facilitare gli scambi e preparare il team all’accoglienza di nuovi talenti. Se l’obiettivo è invece quello di aprire il dialogo tra tutti gli stakeholder sulla vision di sostenibilità aziendale, c’è il workshop Sostenibilità 10 e lode che si avvale di un deck di carte suddiviso tra valori, trend, obiettivi e azioni, con la variabile del budget a guidare le dinamiche e le scelte strategiche. Come abbiamo detto all’inizio, l’acquisizione o la partnership con una startup è un vero e proprio boost di innovazione per un’azienda. Il programma Adotta una startup offre alle imprese la possibilità di  partecipare attivamente allo sviluppo di una o più startup dell’ecosistema selezionato di LifeGate Way, sviluppando progetti di interesse comune attraverso attività di mentorship e workshop.

A che punto è l’open innovation in Italia

Seppur in ritardo rispetto ad altri paesi (europei e non), anche in Italia lo slancio verso l’open innovation è sempre più diffuso, soprattutto tra le imprese di grandi dimensioni che, generalmente, preferiscono il meno rischioso approccio inbound e ricercano spunti e stimoli all’esterno. Secondo una ricerca dell’Osservatorio digital transformation academy su un campione di 161 grandi imprese nazionali, il 45 per cento ha già avviato collaborazioni con queste realtà e il 23 per cento sta pensando di farlo in futuro.

In particolare, le grandi aziende italiane tendono a collaborare con enti di formazione e ricerca o, nel 49 per cento dei casi, con le startup. Tale approccio è meno diffuso tra le piccole e medie imprese: soprattutto per quelle ancorate a un modello di modello di business ormai obsoleto, e alla rassicurante certezza per cui “qui si è sempre fatto così”, non è semplice bilanciare l’esigenza di innovare e le minacce che ne possono derivare. E non è semplice nemmeno trovare gli strumenti, lo spirito di iniziativa o la volontà per intraprendere una riforma interna. Per superare questi ostacoli occorre definire un chiaro indirizzo aziendale, sviluppare una vera e propria cultura dell’innovazione e trovare un proficuo equilibrio tra l’apertura verso l’esterno e conseguimento degli obiettivi interni.

 

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