Statement stampati su t-shirt e capi che supportano messaggi politici: anche il modo in cui ci vestiamo può essere uno strumento per manifestare.
In Pakistan i lavoratori del settore tessile lottano per i loro diritti
Il coronavirus ha portato a licenziamenti in tronco e stipendi non pagati nelle fabbriche tessili del Pakistan. E parte del problema sono i brand di moda occidentali.
Migliori condizioni lavorative, stop a licenziamenti ingiusti – spesso comunicati senza nemmeno un avviso scritto – e stipendi garantiti a fine mese. È per ottenere tutto questo che centinaia di lavoratori del settore tessile hanno protestato pacificamente davanti a una fabbrica di Karachi, in Pakistan, che rifornisce di tessuto denim le case di moda di tutto il mondo. E contro cui la polizia avrebbe aperto il fuoco.
La pandemia di coronavirus ha generato licenziamenti a raffica: molti ordini fatti dai grandi brand della moda e del lusso alle fabbriche di abbigliamento – che si trovano perlopiù dove la manodopera è a buon mercato – sono stati ritardati o cancellati, o addirittura è stato negato il pagamento di merce già prodotta. Le conseguenze sono ricadute a pioggia su operai e lavoratori, spesso lasciati a casa con un semplice: “Non farlo più entrare”. Secondo Nasir Mansoor, vice segretario generale della National trade union federation, dall’inizio dell’epidemia sono stati licenziati più di 15mila lavoratori.
La situazione attuale
Abdul Basit, 35 anni, ha detto di essere stato aggredito dalla polizia con i manganelli durante le proteste proprio davanti alla fabbrica in cui lavora. Ha detto anche di non ricevere lo stipendio da marzo, ma, come molti altri, anche lui non ha contatti diretti con i proprietari dell’azienda. “Siamo lavoratori precari, possiamo essere licenziati in ogni momento”, ha spiegato.
In un Paese in cui il comparto tessile è il secondo per numero di posti di lavoro dopo l’agricoltura, dove circa il 9 per cento del pil e quasi il 70 per cento delle esportazioni dipendono dall’industria della moda, non è difficile immaginare come le chiusure delle fabbriche, la diminuzione di occupati e la sospensione del normale bonus delle vacanze – che solitamente consente ai migranti rurali di tornare a casa prima dell’Eid, la festività alla fine del mese di Ramadan – abbia gettato molti nella disperazione.
Basit, con il suo stipendio di 17.500 rupie pakistane al mese (equivalenti a poco meno di cento euro), deve sfamare una famiglia di sette persone. Che vive a Larkana, la sua stessa città natale, a sei ore di distanza. Ma quest’anno l’Eid non sono riusciti a festeggiarlo assieme: “Il prezzo dei trasporti è salito, sto vivendo alla giornata”.
La Covid-19 come acceleratore
“La maggior parte dei proprietari della fabbriche tessili sta usando il coronavirus come scusa per licenziare operai”, spiega l’attivista Farooq Tariq. “La crisi c’era già, la pandemia l’ha solo accelerata”. A nulla sono serviti i proclami del primo ministro Imran Khan che, a marzo, aveva sollecitato le aziende a sospendere i licenziamenti durante il lockdown, sottolineando che molti lavoratori erano più a rischio di morire di fame che di coronavirus. La provincia del Sindh, poi, ha emanato delle direttive che vietano i licenziamenti in tronco e ha stanziato un fondo di emergenza per i lavoratori.
D’altra parte, è stato piuttosto semplice per le aziende sbarazzarsi di molti operai perché – come Mansoor ha detto – circa l’85 per cento di loro non è neanche sotto contratto. E, ça va sans dire, pochissimi hanno la possibilità di andare in tribunale. Lo scorso anno, l’organizzazione Human rights watch aveva denunciato diverse fabbriche di abbigliamento pakistane per continue e ripetute violazioni, come il mancato pagamento del salario minimo, le ore forzate di straordinari non retribuiti e l’assenza di congedi medici o pause adeguate per i dipendenti.
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