Uccisioni, isolamento, proteste. Il 2023 per i palestinesi è iniziato malissimo

Sono già 26 i palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel 2023: numeri che inquadrano una condizione sociale sempre peggiore tra isolamento e proteste.

  • Sono già 26 i palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel 2023, in linea con i numeri dell’anno scorso.
  • La sinistra ebrea in piazza contro il governo, ma gli israeliani arabi non si sentono rappresentati.
  • Per il 49 per cento degli israeliani, è giusto che gli ebrei abbiano più diritti degli arabi.

L’anno nuovo, in Cisgiordania, sembra iniziato così come era finito quello vecchio, se non peggio. Sono infatti già 26 i palestinesi uccisi dalle forze israeliane dall’inizio del 2023, una media superiore a una vittima al giorno e più alta, al momento, di quella che ha visto il il 2022 ben 220 morti, di cui 38 bambini.

L’ultimo grave episodio è quello avvenuto a Jenin il 26 gennaio, quando nel corso di un blitz battezzato “operazione sicurezza” i militari israeliani hanno ucciso 9 persone: 7 erano stati individuati come militanti della Jihad palestinese, due invece erano civili. Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha parlato di “un massacro”.

Bandiere palestinesi durante una manifestazione
Bandiere palestinesi durante una manifestazione © Mohammed Dahman/Getty Images

Praticamente tutti gli omicidi già avvenuti in questo primo scorcio di 2023, secondo le testimonianze raccolte caso per caso dai giornali locali come The New Arab e Time of Gaza, sono avvenuti nel corso di raid dell’esercito israeliano in villaggi della Cisgiordania, o in posti di blocco, attraverso un uso sproporzionato della forza. Gli ultimi a pagare con la vita il prezzo di una occupazione che dura ormai da mezzo secolo, prima del blitz di giovedì, erano stati Adham Jabarin, un militante, e Jawad Bakawna, un insegnante, colpito mentre cercava di soccorrere lo stesso Jabarin.

Le storie delle vittime 

Storie come quelle del quattordicenne Omar Al-Khmour, che viveva in un centro profughi a Dheisheh, ucciso all’inizio di gennaio: “Le forze di occupazione hanno fatto irruzione a Dheisheh la mattina presto per arrestare un altro palestinese e un attivista della solidarietà internazionale che si trovava nel campo”, ha detto un testimone a The New Arab. “Il giovane – ha aggiunto – ha affrontato i soldati con le pietre, inseguendoli fino alla strada principale fuori dal campo e Omar era lì. I soldati hanno aperto il fuoco mentre uscivano e hanno ferito Omar alla testa. È morto un’ora dopo”.

Storie come quella di Ahmed Kahala, 45 anni, fermato in auto domenica scorsa a un posto di blocco vicino al villaggio di Rammoun, a est di Ramallah, nel centro della Cisgiordania, e ucciso sul posto per ragioni non ancora precisate: quello che si sa è quanto raccontato dal figlio ventenne, che era in auto con lui, e cioè che “i soldati stavano urlando qualcosa che non capivamo, poi hanno lanciato un lacrimogeno che ha colpito la nostra auto, e mio padre è sceso dall’auto e ha iniziato a urlare. I soldati sono venuti da noi e hanno aperto la porta al mio fianco prima che un soldato mi sparasse spray al peperoncino in faccia, e da quel momento non ho visto nulla. Mi hanno trascinato fuori dalla macchina mentre mio padre continuava a litigare con loro, e poi ho sentito uno sparo”.

Storie come quelle del diciannovenne Yazan Jaabari, morto durante un raid israeliano nel villaggio di Kufr Dan, dove altri due lavoratori palestinesi sono stati feriti dal fuoco israeliano.

Le proteste a Tel Aviv, ma senza gli arabi

Durante lo scorso weekend, circa 130mila persone sono scese in piazza soprattutto a Tel Aviv, ma anche a Gerusalemme, Haifa e Be’er Sheva, per la terza settimana consecutiva, per chiedere maggiore democrazia al governo israeliano guidato (ancora una volta) da Benjamin Netanhyahu: sotto accusa in particolare il suo piano di indebolire l’indipendenza del sistema giudiziario del Paese. Si è trattato, secondo il quotidiano progressista Haaretz, di “una delle più grandi proteste a cui il paese abbia assistito nell’ultimo decennio”. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, intervenuto a Tel Aviv ha detto che “questa è una protesta per difendere il paese. Le persone che amano la nazione sono venute oggi per difendere la sua democrazia e i suoi tribunali, per difendere l’idea della vita comune e del bene comune”.

Non è sfuggito però a molti che a scendere in piazza, lo scorso weekend più ancora che in quelli precedenti, siano stati quasi esclusivamente israeliani ebrei, mentre la manifestazione è stata pressoché disertata dalla popolazione araba, i palestinesi di cittadinanza israeliana, che pure rappresentano oltre il 20 per cento della società. Molti di loro si riconoscono nel movimento grassroot Standing Together, che spiega chiaramente come l’attuale dibattito politico sia tutto interno alla maggioranza ebraica di Israele, senza che nessuna delle due parti si interessi davvero della questione palestinese: “I cittadini palestinesi del paese non vedono in queste manifestazioni una rappresentanza di noi come minoranza nazionale emarginata. Nessuno di loro cerca di far progredire i nostri interessi e le nostre richieste – ha scritto l’associazione – Ma piangiamo anche il fatto che saremo i primi ad essere colpiti: economicamente nei nostri villaggi e nelle città, attraverso il restringimento dello spazio sociale e politico di attività civile, attraverso il restringimento dell’isolamento della Cisgiordania”.

Il riferimento all’isolamento è relativo alle nuove linee guida, introdotte da Israele alla fine del 2022, che rafforzano le restrizioni all’ingresso in Cisgiordania per i non israeliani: come testimonia un rapporto di Human rights Watch, le autorità israeliane starebbero cercando di rendere sempre difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania, “rischiando di trasformarla in una nuova Gaza”.

Ma più in generale, il trattamento riservato a palestinesi e israeliani arabi è testimoniato da un sondaggio pubblicato la scorsa settimana dall‘Israel democracy institute, che mette in luce due dati inquietanti:

  •  il 49 per cento degli israeliani ebrei concorda sul fatto che “i cittadini ebrei di Israele dovrebbero avere più diritti dei cittadini non ebrei”, rispetto al 27 per cento nel 2018 (il 62 per cento tra chi vota a destra, il 35,5 per cento tal centro e solo l’11 per cento a sinistra”.
  • l’80 per cento ebrei israeliani ritiene che le decisioni cruciali per la pace e la sicurezza – e il 60 per cento quelle in materia di economia e società – dovrebberro essere prese da una maggioranza ebraica.

2022, odissea per i bambini 

Storie e numeri che non sorprendono, perché perfettamente in linea con quelli dell’anno da poco trascorso, particolarmente tragico per il popolo palestinese. Nel 2022 sono stati almeno 220 i palestinesi uccisi da Israele, di cui 167 in Cisgiordania: un numero che non si raggiungeva dai tempi della seconda intifada all’inizio degli anni Duemila.

I feriti sono addirittura stati 9.500. Particolarmente tragico è stato il bilancio dei bambini uccisi: ben 34. Al punto da costringere Save the Children a lanciare un appello accorato: “Le forze israeliane smettano di far fuoco sui bambini. Tutte le parti in causa devono cercare di ridimensionare la situazione e interrompere l’attuale ciclo di violenza, unico modo migliore per garantire protezione alle bambine e ai bambini e sperare che possano avere un futuro”.

Allo stesso tempo, l’organizzazione non governativa, impegnata in tutto il mondo nella tutela dei minori, ha chiamato in causa anche il governo italiano, e tutta la comunità internazionale “per fare pressione affinché venga avviata immediatamente un’indagine imparziale e indipendente sull’uccisione di tutti i bambini che possa assicurare i responsabili alla giustizia”.

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