Parigi, arte africana d’avanguardia alla Fondation Louis Vuitton

Recarci a visitare una mostra dal titolo Art/Afrique rischia probabilmente di trarci in inganno suscitando l’aspettativa di un’arte prevalentemente esotica o arcaica, ovvero di una produzione le cui caratteristiche solleciterebbero – come talvolta accade – la competenza di ambiti disciplinari quali l’etnologia, la sociologia o l’antropologia culturale. E invece il sottotitolo “le nouvel atelier” della rassegna attualmente

Recarci a visitare una mostra dal titolo Art/Afrique rischia probabilmente di trarci in inganno suscitando l’aspettativa di un’arte prevalentemente esotica o arcaica, ovvero di una produzione le cui caratteristiche solleciterebbero – come talvolta accade – la competenza di ambiti disciplinari quali l’etnologia, la sociologia o l’antropologia culturale.

E invece il sottotitolo “le nouvel atelier” della rassegna attualmente in corso fino al 28 agosto nella suggestiva sede della Fondation Louis Vuitton di Parigi contribuisce già a dissipare l’equivoco, poiché esso allude esplicitamente alla nuova scena artistica internazionale dell’Africa contemporanea, quella cosmopolita e iperconnessa in un costante e fittissimo dialogo col resto del mondo.

Se dunque agli appassionati dell’Africa primordiale e incontaminata e delle opere di interesse archeologico-etnografico conviene dirottarsi verso il Musée du Quai Branly, chi invece desidera accedere a una panoramica aggiornata su quanto di più significativo stia accadendo oggi tra le avanguardie artistiche dell’Africa contemporanea, dai maestri di notorietà ormai planetaria come William Kentridge o Frédéric Bruly Bouabré, sino ai nomi nuovi e meno noti, farà bene a dedicare la massima attenzione al progetto Art/Afrique, le nouvel atelier e alle tre mostre in cui esso si articola.

arte africana
Frédéric Bruly Bouabré, L’endeuillé (1996), Photo © Maurice Aeschimann

Tre mostre concomitanti per esplorare una vertiginosa complessità

La sterminata vastità geografica del continente africano si traduce in un’altrettanto vertiginosa complessità di tradizioni, esperienze e orientamenti artistici non sempre agevoli da cogliere e ricondurre entro un quadro unitario.

E proprio nel tentativo di rendere conto di tale eterogeneità, la Fondation Louis Vuitton ha ramificato il suo percorso espositivo in ben tre mostre distinte.

Nella prima, intitolata Les Initiés, troviamo una selezione di opere create tra il 1989 e il 2009, appartenenti alla collezione di arte africana che l’imprenditore franco-italiano Jean Pigozzi realizzò avvalendosi della collaborazione del curatore André Magnin, incaricato a suo tempo di individuare una serie di artisti (quindici dei quali presenti in questa mostra) provenienti dall’Africa subsahariana e il più possibile estranei all’influsso delle scuole d’arte e dei musei europei, cioè per lo più autodidatti e permeati dai saperi scientifici, spirituali e tecnologici dei loro luoghi d’origine.

La seconda esposizione, Être là, schiude invece gli scenari ben più dinamici e politicamente turbolenti del Sudafrica, dove si confrontano le diverse generazioni di artisti pre- e post-apartheid che, grazie anche al coinvolgimento attivo di gallerie e università, hanno sviluppato nel tempo, soprattutto a partire dagli anni Novanta una solida coscienza del proprio ruolo, scegliendo spesso e volentieri di far udire la propria voce anche nelle questioni di rilevanza economica e sociale.

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Jane Alexander, Infantry with Beast (2003-2010), Photo © Anthea Pokroy

A completare questa approfondita incursione nel continente nero interviene la terza mostra, costituita da un’antologia di opere africane appartenenti alla collezione permanente della Fondazione e miranti a illustrare le peculiarità e i tratti distintivi di questo ampio segmento di mondo in rapporto al resto dell’arte planetaria.

Tra impegno politico e ibridazioni occidentali 

L’amplissimo colpo d’occhio che Art/Afrique propone sulla vita culturale di un intero continente consente innanzitutto di cogliere due opposte ma complementari prospettive visuali, poiché nell’immaginario figurativo di questi artisti africani vediamo confluire da un lato i motivi e le tematiche connesse alle particolari vicende storiche dei loro paesi d’origine (apartheid, lotte per l’indipendenza o i diritti civili ecc.), dall’altro, invece, tutta una serie di tratti emotivi ed esistenziali di carattere inequivocabilmente universale, quali ad esempio la questione dell’identità sessuale dei giovani, i modelli aspirazionali della società e simili.

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Jody Brand, Say her name: Queezy (2016)

Così, se la collezione di Pigozzi privilegia gli artisti africani autodidatti appartenenti alla cosiddetta corrente dell’Art Brut, le altre due mostre accordano invece ampio spazio alla ben più smaliziata generazione dei “born free”, ossia della gioventù sudafricana nata dopo il 1994 e dunque post-apartheid, frequentemente impegnata nella pratica della “struggle photography” o fotografia di lotta, il cui progenitore fu l’artista David Goldblatt, originario di Johannesburg, le cui immagini sono ovviamente inserite tra le opere esposte.

L’installazione di Jane Alexander sul tema della sorveglianza e della segregazione sociale, le parodie anacronistico-coloniali di Kudzanai Chiurai, le bizzarrie hollywoodiane o afro-futuriste di Athi-Patra Ruga (da più parti additato come una sorta di Almodovar africano), rappresentano soltanto alcune tra le tappe più significative dell’intero percorso espositivo.

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La sede della Fondation Louis Vuitton ideata da Frank Gehry (foto di Yamina Oudai Celso)

Lo stupefacente “Vascello” di Frank Gehry

Gli innumerevoli temi ed elementi di riflessione evocati dalle tre mostre costituiscono l’oggetto di un ulteriore approfondimento grazie all’apposito programma di eventi all’insegna di musica, letteratura, cinema e poesia che si svolge in concomitanza con Art/Afrique sempre nella monumentale e suggestiva sede creata dall’archistar Frank Gehry, il famoso Vaisseau (vascello), dichiaratamente concepito come simbolo della vocazione culturale della Francia.

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Il “Vaisseau” (vascello) ideato da Frank Gehty (foto di Yamina Oudai Celso)

Una costruzione maestosa che, nel bel mezzo del Bois de Boulogne incanta il visitatore con le sue dodici vele di vetro e le infinite rifrazioni panoramiche di cielo e di verde che ne derivano.

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