Diritti umani

Ahmad Djalali, il ricercatore condannato a morte in Iran. L’appello della moglie all’Italia: “Aiutatemi a salvarlo”

Il ricercatore Ahmed Djalali è stato condannato a morte in Iran per motivi politici. La moglie ha portato la sua voce in Italia per chiedere giustizia.

Ahmadreza Djalali, 47 anni, è un ricercatore iraniano di rilievo che da oltre tre anni ormai è in carcere a Teheran con un’accusa tanto grave (collaborazionismo con governi ostili) quanto mai provata, e che con un sentenza emessa al termine di un processo a porte chiuse lo scorso 21 ottobre è stato condannato a morte. Oggi Ahmad, come lo chiamano i suoi familiari e i suoi colleghi sparsi in tutto il mondo, sta molto male: pesa 44 chili, e si suppone soffra di una forma di leucemia. Si suppone solo, perché finora è stato visitato solamente dai medici del carcere. Così la moglie Vida Mehrannia ha deciso di lottare per la sua liberazione, portando la sua voce fin dentro il Parlamento italiano e lanciare un appello al nostro Paese, dove Djalali ha lavorato per diversi anni: “Aiutatemi a salvare mio marito”.

“Sono venuta in Italia perché voglio chiedere alle autorità italiane di usare ogni sforzo economico, politico e umanitario per liberare mio marito. Mio marito Ahmad è completamente innocente, per favore chiedere alle autorità iraniane di liberarlo e di fargli riabbracciar la sua famiglia e la comunità scientifica”.

La storia di Ahmad Djalali

Djalali è esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria e ha trascorso quattro anni in Italia lavorando come ricercatore senior presso il Centro di ricerca in medicina d’emergenza e dei disastri dell’Università del Piemonte orientale, il Crimedim. Nell’aprile 2016 è tornato in Iran, invitato dall’Università di Teheran per partecipare a un ciclo di seminari, e in quella occasione è stato arrestato: dal 25 aprile 2016 è detenuto nella prigione di Evin, a Teheran. Il 21 ottobre 2017 Ahmadreza Djalali è stato condannato a morte da un tribunale rivoluzionario a seguito di un processo a porte chiuse. Il reato che gli viene contestato: avere lavorato come spia per il Mossad, i servizi segreti israeliani, contribuendo agli omicidi di alcuni scienziati nucleari iraniani avvenuti tra il 2007 e il 2012. Casi tuttora insoluti, ma per i quali l’Iran accusa proprio Israele.

Accuse false, secondo la famiglia e soprattutto secondo le testimonianze raccolte da associazioni come Amnesty International e dalla Federazione italiana per i diritti umani: lo stesso Djalali dopo l’arresto ha fornito la propria versione, che è quella di aver rifiutato di diventare una spia dei servizi segreti iraniani.

Le condizioni di salute di Djalali sono peggiorate già nei primi mesi dopo l’arresto, anche a causa di un lungo sciopero della fame e della sete condotti per affermare la sua innocenza e protestare contro la totale mancanza di tutela giudiziaria. Negli ultimi mesi, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate per via della probabile leucemia.

La moglie Vida ha parlato al Senato della Repubblica italiana, invitata dalla senatrice a vita e collega ricercatrice di Djalali, Elena Cattaneo, e alla Camera dei deputati, ospite del presidente Roberto Fico: “Sono qui per chiedere ai parlamentari e all’Italia di usare tutta la diplomazia e gli sforzi umanitari a disposizione. Siamo spaventati, Ahmad ha molti problemi di salute, deve uscire il prima possibile. Ogni giorno che passa pensiamo che potrebbe essere l’ultimo, i miei figli mi chiedono cosa sarà di lui e io non so cosa rispondere”.

Evitare un nuovo caso Giulio Regeni

L’Italia per la verità in questi tre anni qualche mossa diplomatica l’ha fatta: dopo la notizia della condanna a morte, in Senato è stata presentata un’interpellanza al governo sottoscritta da 133 senatori; un atto analogo è stato proposto alla Camera da oltre 50 deputati; la commissione parlamentare per i diritti umani già nella scorsa legislatura si era attivata presso l’ambasciatore iraniano a Roma, pressione che la nuova presidente Stefania Pucciarelli promette di continuare a esercitare.

Ahmad Djalali
Ahmad Djalali, nella foto usata per la campagna #freeahmadreeza / ansa

E proprio in questi giorni l’Ordine dei medici di Novara, città in cui Ahmad ha lavorato per 4 anni, ha chiesto al Comune che gli venga concessa la cittadinanza onoraria. Per la senatrice Cattaneo “Djalali è semplicemente un ricercatore come noi, del cui lavoro beneficiano tutti, atterrato in paesi come Israele e Arabia Saudita (acerrimi rivali politici dell’Iran, ndr) per uno scambio necessario di esperienze. Un ricercatore recluso deve essere visto come un attacco diplomatico. In questo la mente non può non andare al nostro Giulio Regeni, con la differenza che di lui abbiamo saputo troppo tardi, mentre di Ahmad che è vivo e sappiamo dov’è”.

Leggi anche: Giulio Regeni, tre anni e nessuna verità

Non a caso, come fatto per Giulio Regeni, Amnesty International si è mossa anche per Ahmad Djalali, con una campagna e una raccolta firme che punta a far pressione sull’Iran e a mantenere accessi i riflettori sulla sua vicenda: “Oggi Ahmed è arrivata a pesare 44 chili, è urgente riportare a casa un ricercatore che ci ha onorato con il suo impegno e il suo lavoro in Italia – spiega Tina Marinari, che per Amnesty segue questa campagna – Abbiamo denunciato le violazioni e richiesto il suo rilascio perché è un prigioniero di coscienza, ha rifiutisto di collaborare con il governo e diventare una spia”.

Altri 87 accademici in prigione in tutto il mondo

Quello di Djalali è un caso emblematico, non certo l’unico: i dati dell’ultimo rapporto Free to Think di Scholars at Risk, un network internazionale di istituti accademici, evidenziano infatti 294 casi di attacchi verificati contro la libertà accademica in 47 paesi dal primo settembre 2017 a fine agosto 2018. Oltre a Djalali, in tutto il mondo ci sono almeno altri 87 accademici imprigionati; 77 sarebbero invece gli studiosi uccisi, scomparsi o che hanno subito altri tipi di violenze e 60 quelli sotto processo. Almeno 875 sono stati, nello stesso periodo, gli studenti uccisi, arrestati o oggetto di altro tipo di coercizione della loro libertà di espressione.

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