La nuova capitale dell’Indonesia sarà nel Borneo. Per colpa dei cambiamenti climatici

Giacarta sta lentamente affondando, per questo il presidente indonesiano ha deciso di spostare la capitale del suo Paese. Finalmente ha rivelato dove: nel Borneo.

Mentre l’uragano Dorian si appresta a sferzare la costa sudorientale degli Stati Uniti con venti a 200 chilometri orari, dall’Indonesia, nel Sudest asiatico, giunge la notizia che la capitale non sarà più Giacarta, ma verrà spostata nel Borneo. Lo ha svelato il presidente Joko Widodo, che già nel mese di maggio aveva reso nota l’intenzione di trasferire la capitale, senza però chiarire dove.

Ora finalmente conosciamo la località prescelta: si trova in un’area oggi ricoperta di foreste nei pressi delle città di Balikpapan e Samarinda, dove il governo indonesiano già possiede circa 180mila ettari di terreno. Il nome da assegnarle non è ancora stato scelto, ma l’obiettivo è trasferirvi uffici e istituzioni, quindi circa un milione e mezzo di funzionari pubblici, entro il 2024. Sorge spontaneo domandarsi: perché portare avanti un’operazione simile, che si prevede costerà circa 30 miliardi di euro, il 19 per cento prelevato dalle casse statali? Semplice, vivere a Giacarta non è più sostenibile.

Vivere a Giacarta non è più sostenibile: il sovrappopolamento, la scarsa pianificazione urbana, le inondazioni e l'innalzamento del livello dei mari l'hanno messa in ginocchio. Per questo il presidente Joko Widodo ha rivelato che la nuova capitale si troverà nel Kalimantan, la parte indonesiana del Borneo
Vivere a Giacarta non è più sostenibile: il sovrappopolamento, la scarsa pianificazione urbana, le inondazioni e l’innalzamento del livello dei mari l’hanno messa in ginocchio. Per questo il presidente Joko Widodo ha rivelato che la nuova capitale si troverà nel Kalimantan, la parte indonesiana del Borneo, attualmente ricoperta di foreste © Jorge Franganillo/Unsplash

Perché Giacarta non sarà più capitale dell’Indonesia

L’attuale capitale dell’Indonesia ospita circa 10 milioni di persone, più 30 milioni nell’area metropolitana. Il traffico paralizza le strade quotidianamente, rendendo l’aria irrespirabile. Le fondamenta sono state indebolite dall’estrazione d’acqua incontrollata, lasciando la città più vulnerabile agli effetti del riscaldamento globale, in particolare all’innalzamento del livello dei mari: alcune zone stanno affondando al ritmo di 25 centimetri l’anno, tant’è che quasi metà della superficie di Giacarta si trova già sotto il livello del mare. Entro il 2050 potrebbe risultare sommerso circa il 36 per cento, con un picco del 95 per cento nei quartieri settentrionali. Come se non bastasse, a causa dei cambiamenti climatici stanno diventando sempre più frequenti e distruttivi fenomeni come inondazioni e tsunami.

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La nuova capitale, invece, si trova in un luogo più sicuro e strategico dal punto di vista geografico, sulla costa orientale del Borneo, la terza isola più grande al mondo. “In 74 anni d’indipendenza non avevamo mai avuto la possibilità di scegliere”, ha commentato il presidente indonesiano, rieletto pochi mesi fa. Ora spetta al Parlamento approvare il trasferimento.

Il presidente Widodo non è l’unico che sta correndo ai ripari

Non sono mancate le critiche, soprattutto da parte degli ambientalisti preoccupati della fine che faranno le foreste attualmente collocate dove sorgerà la nuova capitale, anche perché sono già milioni gli ettari di terreno disboscati per lasciare spazio alle piantagioni di palma da olio, tanto che la popolazione di oranghi del Borneo si è dimezzata fra il 1999 e il 2015. In effetti sembra una contraddizione ricorrere alla deforestazione per sfuggire agli effetti dei cambiamenti climatici, dato che le foreste sono fondamentali per combatterli. Al di là di ogni giudizio, dovremmo considerarlo un campanello d’allarme: non è normale che l’assurdo stia diventando normale.

Un po’ com’è accaduto in Texas, negli Stati Uniti: il governo ha lanciato un ambizioso progetto per spostare le strade costiere più in alto e costruire una barriera che correrà lungo 100 chilometri di costa proteggendo ecosistemi, abitazioni, attività commerciali e… le industrie petrolifere. Forse dovremmo semplicemente accogliere il messaggio di Anote Tong che, quando era presidente di Kiribati – un arcipelago dell’oceano Pacifico composto da 33 atolli corallini e altri piccoli isolotti –, aveva acquistato delle terre per dare la possibilità agli abitanti di costruirsi una nuova casa, ma soprattutto per lanciare un appello alla comunità internazionale, inerme di fronte a quanto stava – e sta – capitando al pianeta. È tempo di agire.

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