Se il lusso nel XXI secolo può calpestare i diritti

In occasione della recente polemica sul mancato rispetto dei più elementari principi di responsabilità sociale d’impresa nella filiera del made in Italy del settore moda, e in particolare delle violenze a danni degli animali diventate prassi per il marchio d’alta gamma Moncler e per altre etichette di prestigio, Stefano Gabbana – stilista e co-fondatore della

In occasione della recente polemica sul mancato rispetto dei più elementari principi di responsabilità sociale d’impresa nella filiera del made in Italy del settore moda, e in particolare delle violenze a danni degli animali diventate prassi per il marchio d’alta gamma Moncler e per altre etichette di prestigio, Stefano Gabbana – stilista e co-fondatore della linea d’abbigliamento Dolce & Gabbana – s’interroga provocatoriamente sui suoi social domandando al pubblico: “Ma Voi sapete cos’è il lusso…?”. 

 

Anche senza dover ricordare Aristotele – che nel VI libro dell’Etica Nicomachea ci ricorda che una vita dedita al guadagno e al perseguimento della ricchezza non può di per se portare alla felicità, dal momento che l’incessante perseguimento di un maggior lucro implica una classificazione del denaro come fine e non come mezzo – l’imprenditore moderno dotato di un minimo di intelligenza e lungimiranza non può puntare ad escludere l’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel suo business.

 

Situazioni come lo sfruttamento del lavoro minorile, l’aumento della povertà in molti paesi a causa delle politiche dissennate di alcune imprese transnazionali, e le crisi finanziarie recenti ancora in corso, chiamano prepotentemente in causa la capacità di ognuno di noi di “indagare qualitativamente il reale”, come Aristotele ci chiede di fare.

 

Il Premio Nobel Milton Friedman dichiarò negli anni ’80 che l’unica azione “socialmente responsabile” a carico di un’azienda sarebbe stata pagare le tasse. Il tempo ha mutato profondamente questo concetto, e oggi la globalizzazione ha generato nuove preoccupazioni e aspettative nei clienti, nelle comunità, nelle autorità pubbliche, come anche negli investitori: le aziende sono fortemente radicate e “connesse” con il territorio dove operano e con la società in generale, spesso molto più di quanto l’imprenditore stesso riesca a percepire. Come sia stato possibile per decenni considerare un’azienda, che è un organismo vivo, come totalmente avulsa dall’ambiente nel quale opera, resta un mistero. Questo, a imprenditori poco avveduti, può piacere o meno, ma ignorare questo fatto equivarrebbe a intestardirsi rifiutandosi di pagare gli stipendi ai dipendenti a fine mese “perché sono troppo esosi”.

 

Certo, prendere atto di ciò significa inevitabilmente assumersi responsabilità nuove, che in passato non erano proprie della normale vita aziendale. Ma – come sempre, da che mondo e mondo – le novità devono e possono essere “governate”, e da ciò che apparentemente appare come un nuovo problema possono nascere anche opportunità interessantissime.

 

Secondo un’indagine promossa dall’agenzia di PR internazionali Ketchum, che ha coinvolto 3.000 tra top manager, politici e leader d’opinione in 11 paesi, “i risultati aziendali non sono tutto”. Si sta sempre più velocemente sviluppando una sensibilità diversa verso le politiche aziendali da parte della cittadinanza, e alle aziende non viene più solo chiesto di “macinare utili” o di far bene il proprio lavoro. I vertici aziendali sono chiamati in causa su tematiche quali la riduzione della povertà, l’impegno sociale ed ambientale, la qualità della vita.

 

Ad esempio, il 77% degli italiani chiede alle aziende di “comunicare con maggiore trasparenza e onestà”, e di “contribuire all’incremento dell’economia locale”. La domanda di un approccio “etico” alle questioni d’impresa è quindi sempre più evidente. Le aziende oggi devono quindi decidersi a fare i conti con un mercato veramente “globale” – non solo in senso geografico, com’è noto da decenni – bensì in quanto “parte della rete neuronale” della società all’interno della quale operano. Per questo, la responsabilità sociale d’impresa ha da tempo superato l’approccio di tipo “filantropico” ed è diventata un elemento perfettamente integrato della strategia d’impresa.

 

Ma assolvere al proprio impegno in termini di responsabilità sociale non significa certo pubblicare un bilancio sociale, come – forse – fa anche la società di Stefano Gabbana: il tempo in cui bastava fare occasionalmente beneficenza e raccontarlo in qualche comunicato stampa, prima di un elegante rinfresco per i giornalisti, è definitivamente tramontato.

 

Cosa rispondere quindi alla domanda di Gabbana su “cos’è il lusso”? Nel XXI secolo, il lusso è dato dal possesso, non necessariamente dalla proprietà; è dato dal controllo del proprio tempo, e dalla possibilità di garantirsi spazi di indipendenza e di libertà; è dato dalla fortuna di poter vivere nell’agio, ma senza mancare di rispetto a chi di questo agio non può approfittare; è dato anche dalla consapevolezza serena di poter star bene – spiritualmente, ma anche materialmente, perché non vi è nulla di male in questo – senza incidere negativamente sull’equilibrio dell’ambiente che ci circonda e sulla sopravvivenza del pianeta. Il lusso non può certamente consistere nel mettere sul mercato un prodotto del valore di 30 euro rivendendolo a quasi 1000 euro, confezionandolo in un paese dove i diritti umani e sindacali non sono rispettati solo per massimizzare il proprio profitto, e ricavando piume da oche spiumate vive urlanti di dolore, ricucite senza anestesia, disinfettate con mercuriocromo solo per tenerle in vita. Questa, signor Gabbana, si chiama vergogna, stupidità e arroganza, non certo lusso. E l’imprenditore che non lo comprende è – tra l’altro – un imprenditore ben poco attento ai propri interessi.

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