
Un tour di 10 giorni attraverso i luoghi più iconici e suggestivi del paese asiatico da scoprire in maniera lenta e a pieno contatto con le tradizioni e le popolazioni del Vietnam.
Per rafforzare l’economia, si punta ad attrarre visitatori. Ma la crescita del turismo lento e sostenibile è l’unica via possibile per sviluppare il settore dei viaggi senza distruggere luoghi in buona parte ancora vergini.
Nargiza si allunga sul tavolo con la discrezione di chi non vuol disturbare. Posa un piattino di frutta e una teiera con un braccialetto di perle legato al manico. Uno di quei braccialetti che le donne della sua famiglia producono per venderli ai turisti di passaggio.
Siamo tra le montagne nel nord del Tagikistan, alla fine di un sentiero sterrato costellato di laghi che la gente del posto ancora oggi percorre a dorso dei muli. Nel ruscello che agita il mulino a pochi metri da lì, due ragazze lavano i panni accovacciate sull’acqua.
Nargiza chiede con un gesto della mano se può portare via i piatti: a differenza del fratello, lei non parla inglese, ma trova ugualmente il modo per comunicare con i visitatori stranieri. Da queste parti non se ne vedono moltissimi, ma il numero è in aumento.
La famiglia di Nargiza ha aperto una guest house tra le montagne del Tagikistan. Una di quelle guest house che il governo sta cercando di incentivare per far crescere il turismo in questo remoto paese dell’Asia centrale.
“I turisti da queste parti stanno aumentando. Per questo abbiamo ampliato la guest house”, racconta il fratello di Nargiza, Said, aprendo la porta della dependance in pietre e mattoni dove la sua famiglia ha allestito una quindicina di posti letto con il bagno in comune. “In alta stagione siamo al completo quasi tutti i giorni”, dice Said a LifeGate. Le camere sono spartane e si affacciano su un boschetto di pioppi incorniciato dalle montagne. La mattina si fa colazione con i prodotti coltivati da loro.
Qui arrivano soprattutto turisti americani. Di europei invece ne vediamo meno e arrivano perlopiù dalla Germania e dalla Francia.
Pur essendo fuori dai circuiti turistici più battuti, il Tagikistan da qualche anno ha iniziato ad attirare gli amanti del trekking, dell’alpinismo e del ciclismo. E ora le autorità puntano a sviluppare entro il 2030 il settore dell’ecoturismo, come previsto dalla Strategia per lo sviluppo del turismo ratificata dal presidente Emomali Rahmon, il leader al potere da più tempo tra i paesi dell’ex Unione Sovietica, che guida con mano autoritaria il Tagikistan dal 1992. Le sue gigantografie sono affisse un po’ ovunque, nelle piazze delle città principali e nei cortili delle scuole dei villaggi.
Composto per oltre il novanta per cento da montagne, con vette altissime che raggiungono anche i settemila metri, il Tagikistan ha un grosso potenziale per lo sviluppo dell’ecoturismo. Basti pensare ai ghiacciai del picco Somoni, la vetta più alta dell’ex Unione Sovietica, perla incontaminata della catena montuosa del Pamir; o al Parco nazionale del Gorno-Badakhshan inserito tra i patrimoni dell’Unesco; o alle acque cristalline del lago Yashikul, così come ai resti archeologici di Sarazm che testimoniano gli insediamenti presenti in Asia centrale tra il IV e il III millennio a.C.
Insomma, il potenziale turistico di questo paese è enorme. Ma gli ostacoli sono ancora tanti, a partire dalle infrastrutture assenti o fatiscenti, dalla mancanza di personale qualificato e collegamenti aerei insufficienti, e dalla scarsità delle vie di comunicazione. “Ora hanno costruito una nuova strada che facilita gli spostamenti tra i valichi di montagna nel nord del paese”, racconta Said. Ma nel resto del paese i collegamenti dovrebbero essere sicuramente potenziati.
La scommessa però è stata lanciata. E in Tagikistan si cerca ora di sviluppare il turismo lento e sostenibile per diversificare e rafforzare un’economia ancora molto fragile, nonostante la curva in crescita.
Anche se l’economia turistica del Tagikistan negli ultimi anni ha registrato numeri in aumento, con un tasso di crescita che l’anno scorso ha superato l’8 per cento del pil, il livello di povertà secondo la Banca Mondiale è ancora molto elevato: 20,4 per cento della popolazione nel 2023. L’economia tagika poi è particolarmente esposta a vulnerabilità esterne, se si considera che quasi la metà del pil (49 per cento) dipende dalle rimesse dei lavoratori emigrati all’estero, perlopiù in Russia.
Nel tentativo di stabilizzare il paese, il governo di Emomali Rahmon si è posto un obiettivo ambizioso: raddoppiare o addirittura triplicare i redditi della popolazione tra il 2016 e il 2030. Una sfida che richiede investimenti e un nuovo modello di crescita incentrato su un settore privato dinamico.
Per creare occupazione e diversificare l’economia il governo punta dunque sul turismo, identificato come una delle leve per la crescita socio-economica del paese.
Segnali concreti di questa direzione si trovano anche nei comunicati della stampa ufficiale che danno spazio al Forum internazionale del turismo organizzato a fine giugno nella città di Kulyab; raccontano l’aumento dei turisti nella regione del Gorno-Badakhshan dove si tramanda l’arte del ricamo e della tessitura; e ritraggono Emomali Rahmon in visita al nuovo villaggio etnografico inaugurato nel distretto di Darvoz.
La vera sfida, però, sarà trovare il giusto equilibrio tra lo sviluppo del turismo e la salvaguardia del territorio e del patrimonio culturale. Un patrimonio basato ancora oggi su tradizioni e stili di vita secolari, che rischiano di venire snaturati dall’arrivo di un turismo aggressivo e non regolato.
Speculazione edilizia, danni agli ecosistemi, perdita di autenticità e folklorizzazione delle culture locali sono effetti già visti altrove: il Tagikistan può ancora evitarli, scegliendo una strada diversa.
“Non ci sono altre strade possibili per sviluppare l’industria turistica tagica, se non quella dell’ecoturismo – ha commentato a LifeGate Eleonora Sacco, fondatrice di Kukushka Tours, un operatore turistico specializzato in viaggi nei Paesi dell’ex Unione Sovietica -. Fuori dalle due città principali, Dushanbe e Khujand, le infrastrutture del Paese sono limitatissime, anche per la geografia aspra e difficile del territorio”.
Secondo i dati dell’Agenzia delle statistiche del Tagikistan, nei primi nove mesi del 2024 il Paese ha accolto 1,2 milioni di visitatori stranieri, il 19 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La stragrande maggioranza arriva dalla Comunità degli stati indipendenti (Csi), l’organizzazione che riunisce nove stati ex-sovietici, tra cui – in ordine di presenze in Tagikistan – Uzbekistan, Russia e Kazakistan.
Al di là dei paesi dell’ex blocco sovietico, l’anno scorso hanno visitato il Tagikistan soprattutto persone provenienti da Cina (21.600), Afghanistan (10.400), Stati Uniti (9.200), Iran (6.800), Turchia (6.100) e Germania (5.200). Nella classifica c’è anche l’Italia, ma per trovarla bisogna scendere nelle posizioni più basse.
“A differenza di altri regimi centroasiatici che negli ultimi decenni hanno creato maxi-resort più o meno fallimentari ispirati ai Paesi del Golfo – come il Silk Road Samarkand in Uzbekistan, la città turistica di Turkistan in Kazakistan, o i mastodontici hotel vuoti affacciati su un Mar Caspio che si ritira sempre di più ad Awaza, in Turkmenistan – in Tagikistan non ci sono città-cartolina servite da aeroporti internazionali, litorali sabbiosi o architetture futuristiche firmate da archistar dove creare resort per i turisti di massa – spiega Eleonora Sacco a LifeGate.
Già noto tra gli appassionati dei viaggi in bicicletta, il Tagikistan attira chi ama i viaggi spartani in aree remote, a contatto con stili di vita molto diversi da quelli europei contemporanei. Nelle aree remote la popolazione vive ancora di pastorizia e di agricoltura poco più che di sussistenza, in case e villaggi tradizionali, spesso in assenza di infrastrutture base come rete fognaria, elettrica e idrica.
Insomma, la via per lo sviluppo del turismo lento e sostenibile è ancora piena di ostacoli. Ma è sicuramente l’unica via possibile per far crescere un settore – quello dei viaggi – che diversamente rischierebbe di distruggere luoghi in buona parte ancora vergini.
“In ambienti dai climi così estremi e dalla natura così delicata e vulnerabile, pensare di creare infrastrutture per un turismo di massa sarebbe una catastrofe, oltre che un’utopia – conclude Eleonora Sacco -. Una delle soluzioni forse meno impattanti sulla popolazione locale sarebbe il modello Cbt (Community based tourism), già attivo da molti anni nel vicino Kirghizistan, che punta a preservare lo stile di vita delle comunità rurali, migliorando le infrastrutture senza snaturare l’impianto di villaggi e cittadine, e creare un introito extra per le famiglie, senza che debbano abbandonare le loro valli per trovare lavoro a Dushanbe o all’estero”.
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