Uno studio della rete di esperti MedECC e dell’Unione per il Mediterraneo mostra quanto il bacino sia vulnerabile di fronte al riscaldamento globale.
Bergsveinn Birgisson. La mia Islanda fra origini multiculturali e vichinghi moderni
Bergsveinn Birgisson, autore de Il vichingo nero, parla di un’Islanda inedita. In attesa di una fiction tratta dal libro. L’intervista al Festivaletteratura di Mantova.
“Lo scorso inverno il vento del nord era diverso, più caldo, molto caldo”, così lo scrittore Bergsveinn Birgisson inizia la nostra conversazione sull’Islanda, dove è nato 48 anni fa, e sul suo ultimo libro Il vichingo nero, edito da Iperborea, dedicato a uno dei primi colonizzatori dell’isola “di ghiaccio”.
Rivelerà, poi, a fine intervista, che a causa di quel vento e di una tempesta estrema ha quasi perso la sua barca e sperimentato in prima persona gli effetti dei cambiamenti climatici. Intanto, al Festivaletteratura di Mantova la temperatura si è abbassata di 10 gradi e sta per cadere una pioggia battente. Filologo di formazione, docente all’università di Bergen, in Norvegia, poeta e romanziere che ha vinto prestigiosi premi internazionali, sin da bambino Birgisson è affascinato dai racconti su di un “Re dell’Atlantico”, diverso da tutti gli altri vichinghi e censurato dagli storici medievali. Si tratta del cosiddetto “Geirmund pelle scura”, vissuto nel Nono secolo ed erede di una famiglia mista. Il vichingo nero aveva la carnagione e i tratti somatici asiatici della madre, una principessa siberiana, e l’incredibile altezza del padre, il sovrano norvegese Hjør.
Con quest’opera sfaccettata, tra autobiografia, romanzo e saggio storico “non ho voluto indagare le origini degli islandesi, ma sottolineare la mescolanza di popoli da cui proveniamo”, spiega l’autore. Nel taglio dei suoi stessi occhi si intravede quel legame con l’Asia, che tutti abbiamo notato nella cantante Björk. L’Islanda, tra l’Europa e il polo Nord, l’ovest e l’est, è stata popolata dai colonizzatori norvegesi, ma anche dagli schiavi irlandesi e scozzesi portati come forza lavoro, e da genti orientali che stringevano rapporti commerciali con i capi vichinghi. “Il vichingo nero” è emblema storico del predatore che tocca temi universali, come il traffico di esseri umani, le migrazioni e lo sfruttamento delle risorse. Aggiunge Birgisson: “Forse Geirmund non era consapevole dei danni ambientali che causava, con la caccia ai trichechi, ma noi predatori moderni sappiamo che cosa stiamo provocando. In Islanda un’élite finanziaria possiede ogni ricchezza, mentre la classe media sta scomparendo. I barbari, oggi, siamo noi, che facciamo morire i ghiacciai, che ci avviamo all’auto-distruzione. E siamo incapaci di raccontare l’emergenza climatica: abbiamo realizzato dei film sulla fine del mondo per divertirci! Non è triste?”.
“Il vichingo nero” sta per essere pubblicato in dodici paesi. La Paramount ha acquistato i diritti per una serie tv. Chissà se il messaggio ambientalista rientrerà come merita nella finzione cinematografica, scuotendo il cuore e la mente degli spettatori.
La storia di Geirmund può essere una metafora dei nostri tempi?
Scrivendo queste 400 pagine ho preferito togliere tutti i riferimenti ai tempi moderni. Ho pensato che fosse meglio per il lettore, dovevo essere preciso sulla storia del vichingo nero. Tuttavia, attraverso il libro ho cercato di comprendere la situazione contemporanea in Islanda. Perché non ha una consapevolezza sociale? La maggior parte degli islandesi pensa a sé, ad arricchirsi e non alla collettività. Prima del 2008 (anno in cui le tre principali banche islandesi fallirono e lo Stato dichiarò bancarotta, ndr), coloro che lavoravano nella finanza si facevano chiamare ‘vichinghi’, giocavano con questo mito. A quel tempo Geirmund, però, non fa nulla di sbagliato. Occupa un Paese dove non vive nessuno o quasi. Ne prende le risorse. Guardando a quel contesto posso non approvarlo, ma devo rispettarlo.
I “vichinghi” di oggi, invece?
Sono un’élite che governa e controlla tutte le risorse. Le classi medie e basse sono come nuovi schiavi. Ed è una cosa accettata, ma io mi domando per quale motivo? Credo che ci sia qualcosa di antico nello stile di vita islandese: l’idea dell’avventuriero che arriva qui per arricchirsi. È una terra individualista, in cui non si pensa magari di restare per sempre. Dopo la crisi finanziaria, la vita è difficile, molto costosa. La classe media non può comprarsi una casa, deve affittare, fare mutui. In una società turbo-capitalista non si è così felici. Vivendo in Norvegia da 25 anni, ma tornando frequentemente in Islanda, dai miei famigliari e amici, vedo ancor più chiaramente i contrasti fra lo Stato socialdemocratico originario e quello di oggi. E’ un Paese molto difficile per artisti, scrittori, creativi, che non riescono a mantenersi. Una piccola nazione, dove i politici mentono alla popolazione. Per esempio, dopo trent’anni di opposizione alla presenza di basi militari statunitensi, nel 2008 sono state smantellate. Ma la scorsa estate, dalla tv nazionale, abbiamo scoperto che se ne installerà un’altra tra poco. È stato tutto deciso e presentato come un dato di fatto, senza una discussione pubblica, onesta. L’Islanda è membro della Nato, ma non sembra avere voce.
Geirmund non corrisponde al mito del vichingo bianco, biondo e con gli occhi azzurri. Ha la pelle scura e i tratti asiatici (sami o saami di origine siberiana, oggi concentrati nel nord della Norvegia). Per questo ha scritto di questo re cancellato dalla storia?
Sì, è uno dei motivi. I primi storici del Medioevo erano xenofobi. Hanno scelto di focalizzarsi solamente sull’origine norvegese dei colonizzatori dell’Islanda. Ho voluto attaccare questo stereotipo della storia vichinga e anche un altro aspetto. Non erano solamente dei barbari bianchi assassini, ma esperti commercianti e navigatori. Le loro navi rappresentano un punto alto della cultura scandinava. Hanno sviluppato queste bellissime macchine prima di chiunque altro. Si spingevano fino a oriente e avevano legami con li arabi, con cui smerciavano prodotti e schiavi.
La xenofobia sopravvive in Islanda?
È spaventoso dirlo, ma gli islandesi non sono così aperti verso chi viene da fuori. Un rapporto dice che gli immigrati sono aumentati del 50 per cento dal 2012, ma si tratta sempre di pochissime persone.
Circa 44mila su 330mila abitanti. Le cronache dicono che i centri sono come prigioni e le deportazioni una consuetudine. Qui, nel sud dell’Europa, mitizziamo l’Islanda?
Ci sono stati molti casi in cui gli uffici d’immigrazione hanno fatto espellere le persone, in segreto, nel mezzo della notte. C’è una sorta di paura nelle persone, dovuta forse a un malinteso. In Islanda stiamo perdendo la classe media, che per il filosofo Aristotele è la situazione peggiore. La classe media è un cuscinetto fra le élite e le classi inferiori, ma anche un canale di collegamento fra queste ultime e i più ricchi. Quando c’è la classe media, le élite devono ascoltare i poveri. In assenza di essa guardano dall’alto, mentre dal basso cresce il risentimento. Questo tipo di società non è accogliente.
Il suo libro, raccontando le origini norrene, celtiche, siberiane, mongole, asiatiche degli islandesi, con una nota sugli occhi a mandorla della star Bjork, ci dice che siamo tutti un mix?
Certamente. Il mito della fondazione dell’Islanda si concentra sui norvegesi, ma non è corretto. Il 60 per cento delle donne che arrivò in Islanda era celtico, proveniva dall’Irlanda, dal Nord della Scozia e dalle isole Ebridi.
Da bambino un vicino le racconta una storia che stimolerà la sua curiosità verso il misterioso vichingo nero. Degli schiavi irlandesi scappano da lui, prendono il mare, non sanno se sopravviveranno, ma sfidano le acque gelide, i venti e le correnti. Si può fare un parallelo con i migranti che s’imbarcano nel Mediterraneo?
Oggi diciamo che la schiavitù non esiste, ma il sistema in cui viviamo, dove scompare la classe media e si arricchisce l’élite finanziaria, crea delle condizioni di schiavitù. Non usiamo questa parola e la gente non riflette abbastanza. Non studiamo più le cause storiche delle migrazioni dall’Africa e non analizziamo la società in cui viviamo. Certamente, l’umana dignità allora come adesso è bandita e umiliata.
Lo scorso luglio è stato celebrato il funerale di un ghiacciaio islandese di 700 anni. Lo studioso Oddur Sigurdsson ha detto: “Il più antico ghiacciaio contiene l’intera storia della nazione islandese”. La natura preserva la storia?
La natura aiuta la memoria attraverso i toponimi. Cioè, i nomi dei luoghi sono il primo segno umano in terra. Devi mantenere viva la storia per capire il nome di una montagna. La natura codifica la storia per noi. E, riguardo i cambiamenti climatici, sono preoccupato. Lo scorso anno ero in barca e, all’improvviso, mi giro e vedo come un buco nero arrivare dal nord. Inizia a piovere forte, il vento dal nord è caldo. Non si era mai vista una cosa del genere. I venti di solito li calcoli e prevedi con facilità. Ho quasi perso la mia imbarcazione. Sono approdato su un’isola e ho cercato una piccola casa in cui rifugiarmi. Mi sono arrampicato sulle colline. Da 60 metri d’altezza la mia barca mi osservava, chiedendosi forse se fossi stupido a lasciarla lì. È stata la prima volta in cui ho avuto la percezione del disastro in tutto il mio corpo, stanco, spaventato. Il caldo vento del nord ha scioccato me, gli islandesi e i norvegesi, ma perché? Da 30 anni parliamo dei cambiamenti climatici!
Quale spiegazione si è dato?
Viviamo in una cultura occidentale d’impronta greco-romana, basata su logos e ratio, la ragione. Il modo in cui percepiamo i cambiamenti climatici ci dimostra che in alcuni casi non siamo esseri razionali, per niente. Altrimenti avremmo fatto di più. Avremmo creduto agli scienziati. Alla Biennale di Venezia ho visto dappertutto opere ambientaliste, sculture, disegni di plastica, rappresentazioni catastrofiche dappertutto. Gli artisti servono a ricordarci che non siamo razionali. Noi scrittori, al contrario, non abbiamo trattato questo argomento. Gli sceneggiatori di Hollywood l’hanno fatto, ma all’interno di un’industria dell’intrattenimento. Hanno scritto film catastrofici, distopici, sulla fine del mondo, con l’intento principale di divertire. È molto triste.
Greta Thunberg spiega ed emoziona allo stesso tempo. Abbiamo bisogno di questo linguaggio?
Esattamente. Non bastano i dati scientifici per veicolare la verità. Bisogna emozionare. Le reazioni della gente verso i cambiamenti climatici mostrano anche quanto ci sentiamo impotenti, senza speranza. La letteratura potrebbe riflettere su cosa significa essere umani oggi e veicolare un messaggio di unità.
Per molto tempo nel sud dell’Europa o nell’occidente delle grandi città abbiamo esaltato la natura, senza occuparcene veramente. Spesso, abbiamo inseguito solo mode green. Voi, nell’estremo nord, sapete quanto è dura. Il vostro punto di vista è più realistico?
I primi a sublimare la natura sono stati sempre i greci antichi. Hanno creato un’astrazione. Nel nord abbiamo, da una parte, storie sull’abbondanza di pesci e, dall’altra, di barche che affondano, uomini che scompaiono nel mare durante una tempesta. La natura è un gigante che dà e che toglie. Pensiamo alle nostre continue eruzioni vulcaniche…Il nostro sentimento verso la natura è primitivo. In vari scritti antichi tedeschi la natura è il nemico. A un certo punto, però, i barbari siamo diventati noi, uomini moderni e civilizzati che inquinano, consumano, sfruttano. Adesso è importante che gli esseri umani ricordino di essere parte della natura e non al di sopra di essa. Va cambiato il punto di vista. Non stai distruggendo il tuo schiavo, il tuo sottomesso, ma te stesso.
La fiction della Paramount parlerà di questo?
Forse sì. Spero che riescano a cogliere tutti gli aspetti del libro e a parlare dell’autodistruzione verso cui ci stiamo dirigendo. Ciò che ancora mi chiedo è se Geirmund e i colonizzatori vichinghi del Nono secolo fossero consapevoli di che cosa stavano infliggendo alla natura e ai loro schiavi. Come storico, non lo so. Rimane una domanda aperta.
Immagine di copertina: Bergsveinn Birgisson ritratto al Festivaletteratura di Mantova © Francesca Lancini
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