Popoli indigeni

Il coronavirus si è portato via Amoim Aruká, l’ultimo indigeno del popolo Juma

Con la morte di Amoim Aruká finisce per sempre la storia del popolo indigeno Juma. Esprimono dolore, e rabbia, le associazioni dell’Amazzonia brasiliana.

Si chiamava Amoim Aruká ed era l’ultimo discendente maschio del popolo indigeno Juma che abita nell’Amazzonia brasiliana. È morto il 17 febbraio, a 86 anni, dopo aver contratto la Covid-19. “Nostro padre ha lottato molto, era un guerriero, e noi continueremo la sua battaglia”, promettono le figlie Borehá, Maitá e Mandeí.

Amoim Aruká aveva manifestato i primi sintomi a metà gennaio, era stato ricoverato al vicino ospedale di Humaitá e poi trasferito in terapia intensiva nella struttura di Porto Velho, più grande e attrezzata, grazie allo sforzo congiunto di indigeni, enti pubblici organizzazioni non governative. In queste ore si dibatte sulla cura che gli è stata somministrata, quel “trattamento precoce” caldeggiato dall’amministrazione di Jair Bolsonaro sebbene la sua efficacia non sia stata attestata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

Amoim Arukà, coronavirus
La perdita di Amoim Arukà è “devastante e irreparabile”, secondo il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab) © Odair Leal/Amazônia Real

Lo sterminio dimenticato del popolo indigeno Juma

Il popolo Juma è stato decimato a più riprese nel corso della sua storia. All’inizio del Ventesimo secolo contava circa 15mila persone, nel 2002 ne erano rimaste solo cinque. “Un genocidio comprovato, ma mai punito”, sottolinea il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab). L’ultima strage in ordine di tempo risale al 1964 e ha avuto luogo nel fiume Assuã, ad opera di un gruppo di sicari assoldati dai commercianti che volevano impossessarsi di gomma e noci del Brasile. Più di sessanta le persone barbaramente uccise, sette i sopravvissuti. “Questa storia non può cadere nell’oblio”, conclude il Coiab.

All’epoca dello sterminio, Amoim Aruká era un adolescente. Da allora ha continuato a battersi per vedere riconosciuti i diritti del suo popolo, in primis la costituzione della riserva indigena Juma, ufficializzata nel 2004. Le sue figlie si sono sposate con i membri del popolo Uru Eu Wau Wau, anch’esso di lingua Tupi-Kagwahiva.

Il fallimento della barriera sanitaria

Poi, nel 2020, è arrivata la pandemia di coronavirus. Un’emergenza di fronte alla quale i popoli indigeni sono particolarmente vulnerabili, soprattutto se hanno stabilito contatti con il mondo esterno soltanto di recente. Stando ai dati più aggiornati, nel bacino dell’Amazzonia sono stati accertati 1,7 milioni di casi per un totale di 42mila morti.

Secondo il Coiab e l’Unione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), il metodo più efficiente per proteggerli è istituire una barriera sanitaria. Una proposta che era stata accolta dal governo e che doveva essere messa in campo già da agosto. Secondo i piani, gli operatori della polizia militare e del distretto sanitario locale dovevano essere disposti nei pressi della riserva Juma per impedire l’accesso agli estranei (e, con loro, al virus). A dicembre, però, era attivo un solo posto di blocco. E sulla sua reale efficacia aleggiano diversi dubbi. Da qui la durissima presa di posizione di Coiab, Apib e Opi (Osservatorio dei diritti umani dei popoli indigeni isolati e di recente contatto), per cui il governo si è dimostrato “assente e incompetente”.

Per Aruká ormai è troppo tardi, così come per l’etnia Juma che ha perso per sempre il suo ultimo discendente maschio. Ora, sostengono le associazioni, è il momento di fare di più per salvaguardare i popoli indigeni, custodi di un territorio prezioso e di una cultura ancestrale.

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