Secondo il dossier Stop Pesticidi nel piatto 2025 di Legambiente, su 4.682 campioni di alimenti, il 48 per cento contiene residui di sostanze chimiche.
Il “sistema cacao” non funziona più. I prezzi sui mercati internazionali sono alle stelle, perché crisi climatica e malattie hanno deturpato la produzione. E i coltivatori sottopagati non hanno i mezzi per resistere.
Oltre 5mila anni fa in Sud America il cacao era considerato il “cibo degli dei”. Osservando la folle corsa al rialzo dei prezzi degli ultimi tempi sui mercati internazionali lo si potrebbe considerare un bene di lusso. Lo scorso aprile i futures sui chicchi di cacao grezzi sono andati meglio dei bitcoin arrivando a costare oltre i 10mila dollari la tonnellata, con un aumento del 160 per cento.
La causa è legata principalmente agli effetti della crisi climatica che ha colpito in particolare l’Africa Occidentale provocando un crollo della produzione mondiale dell’11,7 per cento nella campagna 2023/24.
Le piantagioni di Costa d’Avorio e Ghana, da dove arriva oltre il 70 per cento della produzione mondiale, sono state gravemente danneggiate e l’Organizzazione internazionale del cacao (Icco), che riunisce paesi produttori e consumatori di cacao, prevede che nella prossima stagione ci sarà un deficit superiore alle 500mila tonnellate. Precipitazioni irregolari alternate a temperature oltre la media, dovute al fenomeno climatico El Niño, hanno colpito delle piantagioni già di per sé complesse da coltivare e particolarmente delicate, perché sovrasfruttate e dalle difese immunitarie molto basse per via dell’erosione dei suoli. Agli eventi meteorologici estremi si sono infatti aggiunte delle patologie nefaste come il virus dello swollen shoot che in Costa d’Avorio ha colpito circa il 30 per cento delle piantagioni.
Nel Paese, la filiera del cacao rappresenta più del 15 per cento del Pil, dà lavoro a oltre 600mila agricoltori e sostiene il 24 per cento della popolazione. Si potrebbe dunque pensare che questa fiammata dei prezzi corrisponda a maggiori benefici per i coltivatori ivoriani. Ma il paradosso è che nel corso degli anni si sono impoveriti a causa di una filiera iniqua e sempre più insostenibile.
In Costa d’Avorio il prezzo di acquisto al produttore è fissato e assicurato dall’ente governativo Conseil café-cacao (CCC) che dovrebbe proteggere i coltivatori da fluttuazioni del commercio internazionale. Dopo lunghe pressioni da parte di cooperative agricole e sindacati, lo scorso aprile è stato annunciato un aumento del 50 per cento del prezzo per la campagna intermedia che durerà fino a settembre.
Un kg di fave di cacao è passato da 1.000 a 1.500 franchi Cfa (da 1,52 euro a 2,30 euro). Potrebbe sembrare un passo in avanti significativo se non fosse che i coltivatori sono colpiti da anni di raccolti in calo, contemporaneamente all’aumento del costo della vita esploso dopo la crisi di Covid 19.
La maggior parte degli agricoltori ivoriani, per lo più piccoli proprietari e braccianti, pur producendo la maggiore fetta di “oro bruno”, vive al di sotto della soglia di povertà (fissata a 2,5 dollari al giorno), come denunciato dal Cocoa barometer della rete di ong, Voice network.
Tale precarietà diventa così un freno alla loro capacità di investire in attività agricole redditizie e sostenibili dal punto di vista ambientale.
Molte piantagioni vengono trascurate e non sono rinnovate; la pianta di cacao infatti riduce la resa nel tempo. Ormai la tendenza, specie per chi possiede meno ettari, è di abbandonare progressivamente il cacao per dedicarsi ad altre colture o attività più redditizie. Sarebbero anche questi fenomeni a provocare la crisi attuale, secondo gli esperti.
L’oro bruno è una monocoltura destinata al mercato internazionale che da decenni mostra tutti i suoi effetti collaterali ambientali e sociali. Povertà e mancanza di vero sviluppo nelle comunità favoriscono il lavoro minorile che riguarda il 45 per cento dei bambini delle famiglie di coltivatori di cacao secondo la International cocoa intitative.
Inoltre, Il territorio ivoriano ha perso l’80 per cento delle sue foreste, di cui il 28 per cento negli ultimi 20 anni. Diversi studi hanno dimostrato che la deforestazione ha ricominciato a crescere ed è stata in parte causata dalla coltivazione di cacao dei piccoli agricoltori che si espandono in territori vergini. Infine, la pressione per avere un raccolto sufficiente a sopravvivere, ha provocato a sua volta un aumento dell’utilizzo di prodotti fitosanitari come pesticidi e fertilizzanti, molti dei quali trafficati illegalmente e vietati in Ue, con conseguenti impatti sanitari e ambientali.
Il problema del “sistema cacao” non sembra addebitabile solo alle consuete operazioni speculative dei broker a Wall Street bensì al fatto che il grosso dei profitti è sempre andato a chi lavora i semi per creare le tavolette di cioccolato e venderle, e non a chi li coltiva e raccoglie. Una manciata di multinazionali del cacao formano un oligopolio che ha in mano il mercato e non vuole spartirne i profitti. Questo mercato è stato stimato in 119,39 miliardi di dollari nel 2023 e si prevede cresca a un tasso annuo del 4,1 per cento fino al 2030, mentre ai coltivatori arriva solo tra il 7 e l’11 per cento del valore di una tavoletta di cioccolato venduta in Europa.
Come denunciato da Oxfam, l’aumento dei prezzi dei semi è stato subito ribaltato sui consumatori. Lindt, Mondelēz e Nestlé hanno registrato quasi 4 miliardi di dollari di profitti nel 2023 e li hanno distribuiti tutti agli azionisti. Le fortune collettive delle famiglie Ferrero e Mars, che possiedono le due più grandi società private, sono aumentate fino a 160,9 miliardi di dollari. Cifre superiori ai Pil combinati di Ghana e Costa d’Avorio. Questi ultimi hanno provato a più riprese a battere i pugni sul tavolo. C’era ottimismo nel 2020 quando con una legge hanno introdotto il sovrapprezzo di 400 dollari per ogni tonnellata esportata, detto “Living Income Differential” (LID), destinato ad aumentare la quota di profitti dei coltivatori. Tuttavia, non è cambiato granché perché le multinazionali hanno trovato il modo di aggirarlo malgrado la somma non avrebbe intaccato di molto i loro profitti.
Ad aumentare la complessità della situazione c’è l’imminente applicazione da parte dell’Unione europea dell’Eudr, il regolamento sui prodotti a deforestazione zero, con cui si è stabilito che dal 2025 la vendita di qualsiasi merce derivante dalla deforestazione sarà vietata in Europa (la fetta più grande del mercato del cacao).
L’obiettivo è garantire la trasparenza nelle filiere, ma secondo le cooperative ivoriane è stato fatto solo sulla fase di produzione e non sul mercato, che presenta diversi lati oscuri. Le cooperative di agricoltori, fino ad oggi spremute all’osso, temono seriamente di non poter sostenere i costi della certificazione di tracciabilità nonostante, a rigor di logica, dovrebbero essere le multinazionali a pagare di più.
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