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I cambiamenti climatici potrebbero essere mitigati introducendo, nelle terre più fredde, mandrie di cavalli, renne e bisonti.
È un dato di fatto. I cambiamenti climatici potrebbero diventare irreversibili se il permafrost presente nell’Artico continuerà a sciogliersi ai ritmi attuali e a liberare, di conseguenza, grandi quantità di gas a effetto serra. Stando alle ultime stime se non verrà intrapresa alcuna azione, infatti, entro il 2100 la metà di tutto il permafrost presente sul nostro Pianeta potrebbe sciogliersi e scomparire definitivamente.
Ma che cos’è esattamente il permafrost? Con questo termine inglese (in italiano permagelo), si designa un terreno tipico delle regioni fredde come quelli esistenti nell’estremo nord dell’Europa, nella Siberia e nell’America settentrionale dove il suolo è perennemente ghiacciato (non necessariamente con presenza di masse di acqua congelata). Recenti ricerche hanno osservato che se le emissioni di gas serra continuano ad aumentare, le temperature del permafrost potrebbero innalzarsi di quasi 4 gradi centigradi. E questo provocherebbe, perciò, lo scioglimento della metà di tutto il permafrost presente sul nostro Pianeta. Una prospettiva agghiacciante per la salute del nostro ecosistema.
C’è comunque ancora una speranza di invertire questa tendenza e arriva dai grandi erbivori, come cavalli selvatici, renne, bufali e bisonti. A scoprirlo sono stati i ricercatori dell’Università di Amburgo. Secondo gli studiosi, infatti, ripopolare con mandrie di animali da pascolo i terreni caratterizzati da permafrost potrebbe rallentarne significativamente la perdita. Lo studio su questo argomento è stato appena pubblicato sulla rivista scientifica Scientific reports.
Per realizzare la ricerca è stato monitorato il cambiamento del permafrost nei pressi di Chersky, una città a nord-est della Russia, un luogo in cui mandrie di cavalli selvatici, renne e bisonti si sono ormai insediate da oltre vent’anni. In inverno, in questi luoghi, il permafrost raggiunge temperature di -10 gradi centigradi e, con le abbondanti nevicate, si crea uno spesso strato di neve che riesce a isolare il terreno dall’aria gelida, mantenendolo relativamente caldo. Ma quando questo manto nevoso viene compresso dal movimento delle mandrie, e in particolare dalla compressione dei loro zoccoli, il suo effetto isolante si riduce drasticamente, intensificando, quindi, il congelamento del permafrost.
Con le sperimentazioni i ricercatori hanno dimostrato che, quando cento animali da pascolo ripopolano un’area di un chilometro quadrato circa, dimezzano anche l’altezza media della copertura nevosa, favorendo, di conseguenza, il processo di congelamento del permafrost sul terreno. Per capire se questo effetto potesse essere riprodotto per tutti i terreni di questo tipo dell’Artico, il team di ricercatori ha messo a punto un modello climatico in grado di simulare questo processo su larga scala.
Se si ricorresse al ripopolamento delle mandrie dei grandi erbivori, il permafrost si riscalderebbe solo di 2 gradi centigradi, ossia del 44 per cento in meno rispetto a ciò che sta avvenendo. E in questo modo, secondo i calcoli dei ricercatori, l’apporto dei grandi erbivori sarebbe sufficiente a preservare l’80 per cento degli attuali terreni di permafrost. Certo potrebbe rivelarsi un’utopia quella di reinsediare mandrie di animali selvatici in tutte le aree dove il permafrost è presente nell’emisfero settentrionale. Ma lo studio dimostra come ciò possa rivelarsi una misura importante per rallentare la perdita di questi terreni e, in questo modo, evitare il conseguente rilascio delle enormi scorte di anidride carbonica nell’atmosfera. E sarebbe un altro traguardo che la natura ci offre gratuitamente e che l’uomo dovrebbe essere in grado di utilizzare per il benessere dell’intero ecosistema.
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